giovedì 1 luglio 2010

disturbi del comportamento alimentare e drunkoressia

Va qui ricordato che errori estetici di caratteremondano, dei quali tutte le donne sono schiave, possono indurle a voler restare obeseper essere in linea con la moda. Non c'è dubbio che, per avere un décolleté vistoso, ogni donna si sente obbligata ad avere depositi di adipe intorno al collo, sulle clavicole e nelle mammelle. Ma il fatto è che il grasso si accumula in quelle regionicon grande difficoltà (...) e possiamo essere sicuri che addome, fianchi ed estremità inferiori sono di una grassezza spaventosa. Quanto alla terapia, non è possibile ottenere lariduzione della pancia senza che la paziente si rassegnia sacrificare la parte superiore del suo corpo. Per lei è un vero sacrificio, poiché rinuncia a ciòche il mondo considera bello.
Heckel F., "Les grandes et petites obésités", 1911

Questa citazione riportata da un testo del 1911 da diversi spunti di riflessione, prima tra tutti, l’idea di come il concetto di bellezza evolva e si trasformi in relazione alle mode, al tempo e alla cultura.
Nel passato, in tempi di difficoltà economiche ed alimentari, il modello di bellezza stereotipato era quello della donna in carne, perché esprimeva salute, benessere e fecondità. Ma durante il corso del ventesimo secolo questo modello è lentamente mutato di passo al progresso, passando per l’ideale di bellezza femminile degli anni ’50, già molto diverso da quello dei primi del ‘900, per arrivare ad l’ideale di bellezza fisica che ci è oggi proposto dai media.

L’idealizzazione del corpo perfetto
Da sempre il corpo rappresenta un campo privilegiato di indagine, autoriflessione ed analisi. Attraverso l'accettazione del prorpio corpo si sviluppano infatti durante la fase adolescenziale l'autoconoscenza e l'autoaccettazione, determinanti per una piena e positiva maturità.
Intorno al corpo si concentrano credenze, pregiudizi, falsi miti, che storicamente sono stati responsabili dell'atteggiamento culturale di popoli e epoche. Il corpo possiede caratteristiche peculiari che lo rendono facilmente oggetto di considerazioni, critiche e influenze culturali: in primo luogo è nostro tramite immediato nel contatto con il mondo, facilmente visibile e prima parte di noi ad essere conosciuta dagli altri; in secondo luogo si modifica visibilmente e costantemente durante la nostra vita, rendendo pubbliche quelle fasi di cambiamento estreme che ci conducono dalla nascita, all'infanzia, all'adolescenza, fino all'età adulta e alla vecchiaia.

Il corpo visto lungo un continuum è dunque la rappresentazione esterna dei cambiamenti umani, comune a tutti gli individui, e per questo immediatamente riconosciuto e condiviso come naturale ed "ovvio".

La superficiale familiarità che ognuno di noi ritiene di avere col proprio e altrui corpo fa sì che risulti perfettamente naturale, soprattutto nella nostra cultura, avere da un lato, un modello di riferimento "ideale" di bellezza caratterizzato da canoni rigidi e immodificabili, che prescindono dal naturale processo bio-fisiologico di crescita, dall'altro la convinzione di poter controllare, modificare, cancellare e ricostruire ciò che del corpo non ci piace, in ogni momento e in ogni situazione.

L'appartenenza alla cultura occidentale determina di per sè l'adozione spesso inconsapevole ed acritica dei modelli proposti attraverso la capillare diffusione di simboli di bellezza "ideale", associati ad "appetitosi" richiami quali ricchezza, potere, felicità, benessere, appartenenza ad una speciale elite e via discorrendo.

La comunicazione di massa si è da tempo impadronita dei temi riguardanti immagine corporea e bellezza, contribuendo a creare e diffondere gli stereotipi ben noti su corpo e immagine. La cultura mediatica facilita e sveltisce la diffusione di messaggi ambivalenti e spesso contrastanti intorno ai temi del benessere, della salute e dell'aspetto fisico ideale. Se da un lato la pubblicità e la televisione diffondono come ideale un'immagine corporea magra e essenziale per la donna, tonica e asciutta per l'uomo, dall'altro la lotta al "grasso" in quanto tale è incalzante ed incessante, creando un vero e proprio fenomeno di stigmatizzazione. Al tempo stesso grande risalto viene dato al consumo di snacks, pasti pronti, dolciumi industriali, alcolici, di per sè promotori di una condizione di sovrappeso.

I soggetti più sensibili a tale influenza sono gli adolescenti ed i giovani in genere, che cercano la conferma della loro identità individuale mediante il riconoscimento nell'altro.

Anche se i fattori culturali da soli non sembrano in grado di provocare un disturbo alimentare giocano un ruolo fondamentale se accompagnati da fattori individuali come bassa autostima, tendenza al perfezionismo e al controllo. Numerosi studi mettono inoltre in relazione la comparsa di DCA (soprattutto obesità e disturbo da alimentazione incontrollata) con ripetute prese in giro da parte dei coetanei e dei famililari durante l'infanzia e l'adolescenza, ipercriticismo su alimentazione e aspetto fisico, tendenza familiare alla restrizione alimentare. Riflettendo su questi dati è facile notare che un modello culturale rigido rispetto a bellezza e peso corporeo si traduce in criticismo e prese in giro, che determinano un indebolimento dell'autostima e/o un'esigenza di ipercontrollo, fattori spesso in grado di slatentizzare un disturbo alimentare.

La bellezza moderna
Nel corso dei secoli si sono succedute mode diverse, con l'alternarsi ciclico di magrezza, opulenza, o franca obesità come canoni estetici di riferimento. Da sempre gli sforzi compiuti dalla società per adeguarsi sono stati notevoli ed appannaggio quasi esclusivo del sesso femminile.

Nell'ultimo trentennio è andata affermandosi la magrezza femminile come ideale sia estetico che morale, poiché al corpo esile e scattante sono stati attribuiti valori quali ambizione, organizzazione, potere, autoaffermazione sociale, prima nei paesi occidentali poi in tutti i paesi raggiunti dalla nuova tipologia femminile. Tale tipologia risulta essere un mosaico di valori e aspettative culturalmente attribuiti nelle società passate al genere maschile, e risulta impoverita di tratti femminili precedentemente ritenuti classici (aspetto materno, docilità, sottomissione, accudimento, ecc..).

L'affermazione del nuovo ideale estetico ha dunque simboleggiato un importante cambiamento nel ruolo della donna all'interno della società e questa situazione ha promosso la diffusione dei disturbi del comportamento alimentare.

I modelli estetici femminili attualmente ritenuti ideali sono noti anche alle bambine in età prepubere e vengono da queste considerati un normale modello da seguire, conforme al proprio tempo e alla propria società; spesso le bambine se interrogate in merito esprimono paura del grasso nonché il desiderio di iniziare una dieta, così come tendono ad assimilare più facilmente i comportamenti ed i pensieri relativi alla dieta e all'immagine corporea diffusi continuamente dai media e/o adottati dai familiari. La dieta (leggi: controllo sul corpo e modifica della propria immagine) risulta spesso essere il primum movens nella genesi di un disturbo alimentare: le adolescenti che si sottopongono a regimi alimentari restrittivi presentano un elevatissimo rischio di sviluppare un disturbo alimentare, fino a 18 volte maggiore rispetto a coetanee che non seguono una dieta.

È stato inoltre dimostrato che il confronto fra il proprio aspetto e quello di modelli stereotipati di bellezza rappresentati da top model o fotomodelle ritratte sui giornali provoca una diminuzione del tono dell'umore nella maggioranza di soggetti di sesso femminile. Le adolescenti in particolare riferiscono di essere influenzate dai giornali nella scelta del loro ideale di bellezza, nel pensare di mettersi a dieta o nel provare a perdere peso. Ci sono inoltre relazioni strette fra lettura di riviste e inizio di una dieta dimagrante o di un programma di esercizio quotidiano: chi legge più riviste appare più incline a cimentarsi in programmi di dieta o di esercizio.

Questi dati impongono serie riflessioni sui rapporti tra individuo e media come potenziali fattori di rischio per lo sviluppo di disturbi del comportamento alimentare.

Innanzitutto è da segnalare il gran numero di riviste femminili il cui target specifico è rappresentato dalle giovani adolescenti, che pubblicano in ogni numero decine di pagine dedicate ad aspetto e forma fisica, elargendo a piene mani consigli su come effettuare una dieta dimagrante dai risultati strepitosi o su cosa fare per migliorare la propria immagine.

Il confronto con i media esaspera la naturale tendenza degli adolescenti a sperimentare cambiamenti sfidando se stessi ed i modelli rappresentati dai genitori, nel tentativo di raggiungere un equilibrio interiore ed una maggiore accettazione di sé.

Se si aggiungono il desiderio di identificazione con i propri coetanei ed il continuo confronto - raffronto con le figure genitoriali e con il mondo esterno, non è difficile capire come quasi il 50% delle adolescenti voglia somigliare a tutti i costi (dieta, esercizio fisico strenuo, chirurgia estetica) ai modelli proposti dai media, favorendo decisamente lo sviluppo di disturbi alimentari subclinici e ponendosi a notevole rischio di sviluppare veri e propri disturbi del comportamento alimentare.

I Disturbi del Comportamento Alimentare
L'identificazione dell'anoressia nervosa come entità clinica a sé stante risale al 1873. In quell'anno due medici, l'inglese Gull e il francese Lasègue, partendo da esperienze ed osservazioni differenti approdarono alla medesima conclusione studiando un certo numero di giovani donne che inesorabilmente e a dispetto di qualsiasi tentativo di terapia cessavano di alimentarsi, sopravvivevano per un certo periodo in stato di inedia ed infine morivano.

Ecco la prima descrizione dell'anoressia nervosa, pubblicata da Gull su Lancet nel numero di Agosto del 1868:
"Le persone colpite da questa affezione appartengono in gran parte, al sesso femminile e sono principalmente di età compresa fra i 16 ed i 23 anni. L'ho saltuariamente riscontrata fra i maschi della stessa età. La signorina A.: età 17 anni [...] aveva perso 15 kg. All'epoca pesava 37 kg. Altezza 1,65. Amenorrea da circa 1 anno [...] Anoressia completa per i cibi animali e quasi completa per qualsiasi altro cibo [...] La paziente non lamentava alcun dolore, ma era irrequieta e attiva."

Le basi per lo studio di questo disturbo sono state gettate quasi 140 anni fa, e da allora si è andato delineando sempre più l'ampio spettro dei Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA), in cui si includono oggi quelle patologie caratterizzate da un'alterazione del comportamento alimentare, e da una alterata percezione della propria immagine corporea.

Nell'ambito dei DCA è spesso possibile individuare forme subcliniche e la ricerca si sta indirizzando verso lo studio dei fattori predisponenti, dei fattori di rischio e delle fasi iniziali di malattia.

La mortalità di questi disturbi è piuttosto elevata (considerando che ne sono colpiti ragazze e ragazzi di giovane età) e varia nell'anoressia dal 5% al 18%, mentre è intorno al 7% per la bulimia.

Definizione e criteri diagnostici
I disturbi del comportamento alimentare costituiscono l'insieme di tutte le sindromi psichiatriche che si manifestano attraverso un comportamento alimentare disturbato.

All'interno di questa definizione sono racchiusi tre tipi di patologie:
Anoressia nervosa (AN)
Bulimia nervosa (BN)
Disturbi del comportamento alimentare non altrimenti specificati (DCAnas).

Nelle pagine sui singoli disturbi, sono riportati i criteri diagnostici proposti dal Manuale Statistico e Diagnostico per le Malattie Mentali dell'American Psychiatric Association (DSM-IV), attuale punto di riferimento per la diagnosi in Psichiatria.

Tali criteri sono stati sviluppati per permettere una corretta e omogena classificazione delle malattie mentali (in questo caso i Disturbi del Comportamento Alimentare) in tutto il mondo. Il loro utilizzo è prevalentemente statistico e classificativo. Molto più utile a livello clinico e terapeutico è un approccio che si basa sugli elementi psicopatologici caratteristici di ogni patologia.

È opportuno inoltre sottolineare che i disturbi del comportamento alimentare tendono a presentarsi all'esordio in modo eterogeneo, così come nel corso del tempo possono andare incontro a profonde modificazioni cliniche e psicopatologiche, responsabili di oscillazioni lungo un continuum sintomatologico estremamente ampio.

Molti studi evidenziano la tendenza all'instabilità diagnostica di questi disturbi e considerano gli attuali sistemi di classificazione insoddisfacenti rispetto alle esigenze del clinico.

Anoressia Nervosa
Il termine anoressia deriva dal greco e significa letteralmente mancanza di appetito. Questo termine è abbastanza improprio dato che le persone affette da Anoressia Nervosa non smettono mai di avere fame, ma hanno così tanta paura del cibo che negano lo stimolo della fame oppure tentano di ingannarlo (bevendo, ad esempio, notevoli quantità di acqua o mangiando grandi quantità di verdure o fibre).

L'Anoressia Nervosa è una patologia che ha come nucleo caratteristico un'estrema paura di aumentare di peso, una profonda sensazione di essere sovrappeso o francamente grassi (pur essendo spesso già molto magri o normopeso) e il continuo timore di perdere il controllo sul proprio peso, sul cibo e sul corpo.

Per questi motivi, i soggetti affetti da anoressia cercano di ridurre il più possibile l'assunzione del cibo, eliminano alcuni cibi che ritengono pericolosi per la linea e cercano in ogni modo di perdere peso o mantenere un sottopeso a volte anche estremo.

Bulimia Nervosa
Criteri diagnostici:
Il DSM-IV definisce la Bulimia Nervosa sulla base della presenza di
1.Abbuffate ricorrentiUn'abbuffata è caratterizzata dai seguenti criteri:
mangiare in un definito periodo di tempo una quantità di cibo significativamente maggiore di quella che la maggior parte delle persone mangerebbe nello stesso tempo e in circostanze simili;
sensazione di perdere il controllo durante l'episodio (ad esempio sensazione di non riuscire a smettere di mangiare o a controllare cosa e quanto si stia mangiando).
2.ricorrenti e inappropriate condotte compensatorie per prevenire l'aumento di peso, come vomito autoindotto, abuso di lassativi, diuretici, enteroclismi o altri farmaci, digiuno o esercizio fisico eccessivo.

Le abbuffate e le condotte compensatorie si verificano entrambe in media almeno due volte a settimana, per tre mesi.

I livelli di autostima sono indebitamente influenzati dalla forma e dal peso corporei.

L'alterazione non si manifesta esclusivamente nel corso di episodi di anoressia nervosa.

Anche nell'ambito della BN si riconoscono due sottotipi:
3.con condotte di eliminazione: nell'episodio attuale di bulimia nervosa il soggetto ha presentato regolarmente vomito autoindotto o uso inappropriato di lassativi, diuretici e enteroclismi
4.senza condotte di eliminazione: nell'episodio attuale il soggetto ha utilizzato regolarmente altri comportamenti compensatori inappropriati, quali il digiuno o l'esercizio fisico eccessivo, ma non si dedica regolarmente al vomito autoindotto o all'uso inappropriato di lassativi, diuretici e enteroclismi

Elementi psicopatologici
Le abbuffate sono vissute in genere con estrema vergogna e disagio e spesso sono seguite da strategie compensatorie per prevenire l'aumento di peso (vomito, abuso di lassativi, diuretici o altri farmaci, digiuno o esercizio fisico eccessivo).

I soggetti bulimici hanno spesso un peso normale ma sono costantemente preoccupati per il cibo, la forma e il peso corporei, si sentono spesso inadeguati ed estremamente sofferenti, anche perché provano una forte sensazione di vergogna relativa sia al loro corpo che alle loro perdite di controllo, che confessano con enorme sofferenza.

Il loro benessere e la loro autostima finiscono per essere costantemente e esclusivamente influenzati dai problemi relativi al cibo e alla paura di perdere il controllo. La sensazione peggiore provata da queste persone è l'incapacità di frenare l'impulso a compiere un'abbuffata, vale a dire la perdita di controllo. La vergogna che si associa a questi sintomi è così grande che molti pazienti riescono a condurre una vita apparentemente normale senza destare nei familiari o amici alcun sospetto, vivendo le loro perdite di controllo in segreto e solitudine.

È importante considerare che le abbuffate sono quasi sempre secondarie alla dieta estrema e al digiuno e tendono a scomparire con la normalizzazione dell'alimentazione. È dunque fondamentale che il soggetto possa lavorare con un'equipe di specialisti allo scopo di regolarizzare l'assunzione di cibo, dato che la diminuzione delle abbuffate provoca di per sé un aumento dell'autostima, una maggior fiducia nelle proprie capacità e la sensazione di poter in qualche modo combattere attivamente il disturbo.

Infatti un buon livello di nutrizione aumenta le risorse individuali per sostenere una psicoterapia, accorciando i tempi di cura.

I DCA non altrimenti specificati
Nella categoria Disturbi del comportamento alimentare non altrimenti specificati (DCAnas) il DSM-IV include quei disturbi dell'alimentazione che non soddisfano completamente i criteri di alcun disturbo dell'alimentazione specifico, pur manifestandosi con quadri clinici significativi quanto a gravità e difficoltà di trattamento.

Come esempi clinici, vengono descritti:

  • Per il sesso femminile tutti i criteri dell'anoressia nervosa in presenza di un ciclo mestruale regolare.
  • Tutti i criteri dell'anoressia nervosa sono soddisfatti e, malgrado la significativa perdita di peso, il peso attuale risulta nei limiti della norma.
  • Tutti i criteri della bulimia nervosa risultano soddisfatti tranne il fatto che le abbuffate e le condotte compensatorie hanno una frequenza inferiore a due episodi a settimana per tre mesi.
  • Un soggetto di peso normale che si dedica regolarmente ad inappropriate condotte compensatorie dopo aver ingerito piccole quantità di cibo.
    Il soggetto ripetutamente mastica e sputa, senza deglutirle, grandi quantità di cibo (spitting).
  • Disturbo da alimentazione incontrollata (binge eating disorder, BED): ricorrenti episodi di abbuffate in assenza delle regolari condotte compensatorie inappropriate tipiche della bulimia nervosa.

Inoltre, negli ultimi anni, sono state definite diverse patologie simili o con tratti vicini ad anoressia o bulimia ma da queste diverse:l’ortoressia (riconosciuta dalla medicina ufficiale come vero e proprio problema del comportamento alimentare) e drunkoressia (allo studio dei ricercatori ma non ancora ufficialmente riconosciuta),

L’ortoressia
L'ortoressia (dal greco orthos -corretto- e orexis -appetito-) è una forma di attenzione eccessiva alle regole alimentari, alla scelta del cibo e alle sue caratteristiche.

Può essere dovuta ad una paura, a volte maniacale, di ingrassare o di non essere in perfetta salute, e conduce proprio, di norma, a un risultato opposto con conseguenze negative sul sistema nervoso, avvertite con difficoltà dal soggetto colpito e in modo evidente da chi lo circonda.È classificata come disturbo dell'alimentazione, ma non ancora ufficialmente riconosciuta dal mondo psichiatrico e quindi non ancora presente nel manuale americano DSM.

È stata descritta per la prima volta da Steve Bratman nel 1997, dietologo che si autodefinisce ex-ortoressico e che ha formulato un questionario allo scopo di identificare questa psicopatologia.La psicoanalisi odierna tende a dare sempre più peso a questa forma di mania per le regole eccessive, rivolte in particolare al cibo, ritenendo che si stia diffondendo silenziosamente e coinvolga in maggior misura individui di sesso femminile.Sono stati riconosciuti diversi livelli di ortoressia, a partire da forme più lievi e transitorie fino ad arrivare a situazioni quasi maniacali, ma non sono stati ancora canonizzati in termini clinici.



Starving Themselves,
Cocktail in Hand,
dal New York Times del 2 marzo 2008:
All are dangerous variations on the eating disorders anorexia and bulimia, and have become buzzwords that are popping up on Web sites and blogs, on television and in newspaper articles. As celebrity magazines chronicle the glamorous and the suffering, therapists and a growing number of researchers are trying to treat and understand the conditions.
The latest entry in the lexicon of food-related ills is drunkorexia, shorthand for a disturbing blend of behaviors: self-imposed starvation or bingeing and purging, combined with alcohol abuse.
Drunkorexia is not an official medical term. But it hints at a troubling phenomenon in addiction and eating disorders. Among those who are described as drunkorexics are college-age binge drinkers, typically women, who starve all day to offset the calories in the alcohol they consume. The term is also associated with serious eating disorders, particularly bulimia, which often involve behavior like bingeing on food — and alcohol — and then purging.
Anorexics, because they severely restrict their calorie intake, tend to avoid alcohol. But some drink to calm down before eating or to ease the anxiety of having indulged in a meal. Others consume alcohol as their only sustenance. Still others use drugs like cocaine and methamphetamine to suppress their appetites.
“There are women who are afraid to put a grape in their mouth but have no problem drinking a beer,” said Douglas Bunnell, the director of outpatient clinical services for the Renfrew Center, based in Philadelphia.
The center, like a small but growing number of eating-disorder and addiction-treatment facilities, most on the West Coast, offers a dual focus on substance abuse and eating disorders.
Dr. Bunnell, the past president of the National Eating Disorders Association, said the obsession with being skinny and the social acceptance of drinking and using drugs — along with the sense, lately, that among celebrities, checking into rehab is almost a given, if not downright chic — are partly to blame.
“Both disorders are behaviors that are glorified and reinforced,” Dr. Bunnell said. “Binge drinking is almost cool and hip, and losing weight and being thin is a cultural imperative for young women in America. Mixing both is not surprising, and it has reached a tipping point in terms of public awareness.”
Psychologists say that eating disorders, like other addictions, are often rooted in the need to numb emotional pain with substances or the rush provided by bingeing and purging. The disorders are often driven by childhood trauma like sexual abuse, neglect and other sources of mental anguish.
Manorexia is the male version of anorexia. Orthorexia is an obsession with what is perceived as healthy food — eliminating fats and preservatives, for example. But people with this condition can dangerously deprive themselves of needed nutrients.
Diabulimia refers to diabetics who avoid taking insulin, which can cause weight gain, in order to control their weight. Despite the name, the disorder does not typically involve purging.
Binge Eating Disorder refers to obsessive overeating, especially of foods high in salt and sugar, that does not involve excessive exercise or purging to compensate for the high caloric intake.
Judy Van De Veen, 36, who lives in Gillette, N.J., became anorexic at 24. She said she starved herself, meting out small bites of low-calorie food for two months. Then she began bingeing and purging, throwing up entire boxes of cereal, whole pizzas and fast food from drive-throughs that sometimes cost her $80 a day.
She went into treatment, both inpatient and outpatient, for her eating disorder for several years in the late1990s, with mixed results. In 2001, still struggling with bulimia, she took up drinking. If she ate while drinking, she said, she would purge, but then consume more alcohol to make up for the loss, because she wanted to remain drunk.
Many bulimics who drink use alcohol to vomit, experts on eating disorders say, because liquid is easier to purge. They also tend to vomit because they often drink on empty stomachs.
“In the beginning of my eating disorder I wouldn’t touch alcohol because it is so high in calories,” said Ms. Van De Veen, who later found herself regularly hospitalized for dehydration. “But I have the disease of more: I just want more no matter what it is.”
Two years into her drinking problem, she joined a 12-step program. She spent the next two years in and out of six residential rehab programs, spending about $25,000 of her own money because she didn’t have health insurance. But none of the programs were equipped to address eating disorders, so she binged and purged and her eating disorder raged.
Ms. Van De Veen said she has been sober for three years, but is still struggling with bulimia. She now has a 14-month-old daughter, Cheyenne, and she said that her pregnancy and support groups had helped her make progress on her eating disorder.
“I had an excuse to eat,” she said of being pregnant. “I didn’t care and I loved it.”
But she said the temptation to binge and purge is haunting her again.
Trish, 27, who has had an eating disorder for the last 10 years, recently checked into Renfrew, her fifth stint in a treatment center or hospital.
Like Ms. Van De Veen, Trish, who agreed to be interviewed on the condition that only her first name be used to protect her privacy, struggled with anorexia first and then found alcohol. Before she was admitted to Renfrew, she said she was blacking out from lack of food and suffering from excruciating stomach pain.
Trish, a nurse who lives in Ohio and works with cardiac patients, said she would starve herself through her 8- or 12-hour shifts, staring at the clock and fixating on when she could have her first drink. Drinking, she said, relaxed her when she had to eat in front of other people, a huge source of stress.
“The alcohol is probably what kept any weight on me,” she said in an interview late last month at the Renfrew Center, which she entered on New Year’s Eve for eight weeks of treatment.
“Drinking helped me be less anxious,” she said. “It helped me be more of Trish. The two go together: If I drink more, I’m more into my eating disorder and vice versa.”
Studies show that binge drinking and alcohol abuse are on the rise among women, who are also more prone than men to eating disorders.
About 25 to 33 percent of bulimics also struggle with alcohol or drugs, according to a study published last year in the journal Biological Psychiatry. Between 20 and 25 percent of anorexics have substance abuse problems, the study found.
A growing number of researchers are examining the psychological and neurological links between eating disorders and substance abuse: Does eating a chocolate bar, or bingeing and purging, stimulate the same pleasure centers in the brain as drugs or alcohol?
Suzette M. Evans, a professor of clinical neuroscience at Columbia, recently began a study of the connection between bulimia and substance abuse, a field she said has been neglected.
“People are finally beginning to realize that food can function in the same way as drugs and alcohol,” Dr. Evans said.
As more patients seek treatment for both eating disorders and substance abuse, a complicated set of mixed messages can arise. The response to addiction is abstinence; but quitting food is not an option.
“We’re trying to get our patients to find effective behaviors and life skills,” said Dr. Kevin Wandler, the vice president for medical services at Remuda Ranch, which addresses both eating disorders and addiction at its facilities in Arizona and Virginia.
“Eating normally would be an effective behavior, but it’s easier to give up alcohol and drugs because you never need it again,” Dr. Wandler said. “If your drug is food, that’s a challenge.”
Trish left Renfrew on Feb. 22, after her second time in treatment there. She was determined, she said, to break her obsessions with weight, food and alcohol. Before she checked in, “I didn’t even have the energy to laugh,” she said. But as she prepared to go home, she had more hope than she has had in years.
“I will not live my life like this,” she said. “I’ve learned this time not to be ashamed. I want to love myself and I want to forgive myself.”


Suicidandosi di fame con il cocktail alla mano:
Anoressia e bulimia sono tutte pericolose derivazioni dei disturbi alimentari e sono diventate parole di uso quotidiano che spuntano su siti web, blog, televisione ed articoli di giornale. Mentre i giornali scandalistici passano agli annali questi stereotipi sempre di tendenza ma sempre sofferenti medici e sempre più ricercatori stanno cercando di capire e curare questa patologia.
L’ultima novità nel campo dei disturbi nei comportamenti alimentari è la drunkoressia, un termine che indica una vasta gamma di comportamenti disturbanti: una inedia autoimposta o un movida alcolica combinata a un successiva epurazione peristaltica.
La drunkoressia non è un termine medico ufficiale, ma nasconde un preoccupante disturbo alimentare che crea dipendenza. Tra coloro descritti come drunkoressici vi sono generalmente bevitori adolescenti da festa, generalmente donne, che patiscono la fame tutto il giorno per smaltire le calorie assimilate attraverso l’alcol assunto. Il termine è anche associato a seri disturbi alimentari, in particolare la bulimia, che spesso coinvolgono comportamenti come accanirsi sul cibo (e alcol) vomitandolo.
Chi soffre di anoressia poiché riduce fortemente l’apporto di calorie per farlo tende ad evitare l’alcol, ma alcuni devono per rilassarsi prima di mangiare o per ridurre l’ansia dopo il pasto.
Altri utilizzano l’alcol come unica fonte di sostentamento. Altri ancora utilizzano droghe come cocaina e meta-anfetamina per sopprimere l’appetito.
“Ci sono donne che hanno paura di mangiare un acino d’uva ma non hanno problemi a bere una birra.”dice Douglas Bunnell, il direttore dei servizi ospedialeri del Renfrew Center di Philadelphia.
Questo Centro, come un piccolo ma crescente numero di strutture che trattano disturbi alimentari e questo genere di dipendenze, prevalentemente sulla West Coast, offre un duplice aiuto per l’abuso di sostanze e i problemi relativi all’alimentazione.
Il Dott. Bunnell, ex presidente dell’Associazione Nazionale Disturbi Alimentari sostiene che l’ossessione e l’accettazione sociale del modello anoressico, c osì come l’abuso di alcol e droghe
-“e lo prova il fatto che tra le celebrità, frequentare le case di riabilitazione è diventato quasi chic”- sono entrambe da condannare.
“Entrambi i disturbi sono comportamenti che sono socialmente accettati e glorificati” sostiene il Dott. Bunnell “esagerare con l’alcol e cool e il perdere peso ed essere magre è un imperativo culturale per le giovani donne americane. Non è una sorpresa che queste problematiche si manifestino insieme ed è ormai diventato un fenomeno globalmente riconosciuto”.
Gli psicologi sostengono che i disturbi alimentari, come altre dipendenze, siano spesso radicati nella necessità di lenire un dolore emozionale con sostanze o sconvolgimenti fisici causati dal mangiare e vomitare. I disordini sono spesso riconducibili a traumi infantili come abusi sessuali, abbandono o altre fonti di sofferenze psicologiche.
La manoressia è la versione maschile dell’anoressia. L’ortoressia è un’ossessione per ciò che viene considerato come un cibo salutare, ad esempio eliminando grassi e conservanti. Ma le persone che soffrono di questo disturbo possono pericolosamente privarsi di sostanze nutrienti indispensabili.
La diabulimia affligge i diabetici che rifiutano di curarsi con l’insulina, che può causare obesità, allo scopo di controllare il proprio peso.
A dispetto del nome le persone che ne sono afflitte mangiano e poi vomitano.
Il disturbo alimentare compulsivo si riferisce a quelle persone che mangiano in maniera ossessiva, specialmente cibi ricchi di sali e zuccheri che non richiedono un eccessivo sforzo fisico per compensare l’elevata quantità di calorie assorbite.
Judy Van de Veen, 36 anni, vive a Gillette, nello stato di New York, divenne anoressica all’età di 24. Riferisce che si stava uccidendo di fame mangiando soltanto piccoli morsi di alimenti a basso contenuto calorico per più di due mesi. Poi cominciò mangiare e vomitare compulsivamente, spazzolando intere confezioni di cereali pizze giganti e cibo da fastfood che talvolta le costavano 80 dollari al giorno. Negli anni ’90 decise di farsi curare per il suo problema, stette in cura per diversi anni, prima in clinica poi con cure saltuarie, con risultati altalenanti. Nel 2001, mentre stava ancora combattendo con la bulimia ha cominciato a bere. Se mangiava mentre sui ubriacava, dice, sapeva che avrebbe vomitato, ma subito dopo avrebbe ricominciato a bere perché voleva rimanere ubriaca.
Molti bulimici che devono usano l’alcol per vomitare, riferiscono gli esperti, in quanto il liquido è più facile da rigettare. Inoltre tendono a vomitare perché spesso devono a stomaco vuoto.
“Al principio del mio disturbo alimentare, non mi azzardavo a toccare l’alcol per l’elevato contenuto calorico.” dice Miss Van de Veen, che fu poi ricoverata per disidratazione.
“Ma io avevo il disturbo dell’ancora: ne volevo semplicemente ancora, non importa di cosa.”
Dopo due anni che soffriva del problema dell’alcol, ha deciso di intraprendere un programma riabilitativo. Per i due anni successivi ha fatto dentro e fuori da sei programmi riabilitativi in clinica, spendendo più o meno 25mila dollari del proprio patrimonio non avendo un’ assicurazione sanitaria. Ma nessuno dei programmi frequentati era attrezzato per la cura dei disturbi alimentari così il problema si è soltanto aggravato.
Miss Van de Veen è ormai sobria da tre anni, ma sta ancora combattendo con la bulimia.
Oggi ha una figlia di quattordici mesi, Cheyenne, e riferisce che la gravidanza e i gruppi di supporto l’hanno enormemente aiutata per il suo problema.
“Adesso ho una scusa per mangiare, non me ne preoccupo e inoltre è per una cosa che amo.”
Nonostante tutto la tentazione del meccanismo bulimico la tormenta ancora.
Trish, 27 anni, che ha sofferto di disturbi alimentari per gli ultimi dieci, è recentemente stata ricov erata al Renfrew. Questo è il suo quinto tentativo di ricovero.
Come Miss Van de Veen, anche Trish, che ha accettato ad essere intervistata solo a condizione che non venisse rivelato il suo cognome per tutelare la propria privacy, ha prima combattuto con l’anoressia ed è poi caduta nell’alcol. Prima di essere ricoverata soffriva di svenimenti da carenza di cibo e lancinanti dolori allo stomaco.
Trish, che viveva Ohio e faceva l’infermiera nel reparto di cardiologia, riferisce che era capace di non mangiare per tutte le otto o dodici ore del suo turno, fissando l’orologio e desiderando soltanto il momento in cui avrebbe potuto bere il primo drink. Il bere, dice lei, l’aiutava a sostenere situazioni conviviali che erano per lei grande fonte di stress.
“L’alcol è probabilmente l’unica cosa che la teneva in piedi”ha detto in un intervista rilasciata il mese scorso al Renfrew Center dove è stata ricoverata poco dopo capodanno per otto settimane.
“L’alcol mi aiutava ad essere meno ansiosa” dice lei “e mi aiutava ad essere più me stessa.”
Le due cose erano sincroniche: con più bevevo, con più ricadevo nella mia ossessione e viceversa. Recenti studi dimostrano che il bere compulsivamente e l’abuso di alcolici sono in aumento tra le donne, più predisposte degli uomini ai disturbi relativi al cibo.
Secondo uno studio pubblicato lo scorso anno sul giornale “Biological Psychiatry” il 33% dei bulimici, soffre anche di problemi di alcol o droghe, mentre il 25% degli anoressici hanno problemi di dipendenza da sostanze.
Un sempre più alto numero di ricercatori stanno studiando il legame psico-neurologico tra i disturbi alimentari e l’assunzione di sostanze: mangiare una barretta di cioccolato o mangiare e poi vomitare stimola gli stessi centri del piacere nel cervello di droghe e alcol?
Suzzette M.Evans, professoressa di neurologia all’Università della Colubia, ha recentemente cominciato una ricerca sulla relazione tra bulimia e abuso di sostanze, un campo secondo lei molto trascurato.
Mentre sempre più pazienti cercano aiuto per questo problema, contemporaneamente si sollevano diversi interrogativi: la soluzione per una dipendenza è l’astinenza; ma l’astinenza dal cibo non è un opzione.
“Stiamo cercando di far si che i nostri pazienti trovino comportamenti e esperienze reali” dice il Dott. Kevin Wlander, vice presidente dei servizi ospedalieri al Remuda Ranch dove cura entrambi i disturbi.
“Mangiare normalmente potrebbe essere un comportamento efficace, ma è più facile smettere l’alcol e le droghe perché non ne senti più il bisogno” dice il Dott Wlander “ma se la tua droga è il cibo il problema è molto più serio.”
Trish, ha lasciato Renfrew il 22 febbraio, dopo il suo secondo periodo di ricovero lì. Era determinata a smetterla con l’ossessione per peso, cibo e alcol. Prima di essere ricoverata, dice che non aveva nemmeno la forza di ridere. Ma adesso che si prepara ad andare a casa ha molta più speranza di quanto ne avesse negli anni passati.
“Non vivrò la mia vita così” dice ora “ Questa volta ho imparato a non vergognarmi. Voglio amare e rispettare me stessa. ”

La Drunkoressia
Il termine drunkoressia è stato inventato dai giornalisti del “New York Times” anche se non è ancora riconosciuto dalla medicina ufficiale. Il termine indica un nuovo anomalo e pericoloso comportamento alimentare diffuso fra le adolescenti: mangiare poco fino ad arrivare anche a digiunare per poter assumere forti quantità di alcolici.

Lo scopo di tale comportamento è duplice:
dimagrire e farsi accettare dal gruppo dei pari, in particolare i maschi la cui assunzione di alcolici è legata al divertimento ed alle emozioni. A tal riguardo, pare che i maschi siano particolarmente interessanti le ragazze che assumono comportamenti pericolosi e trasgressivi. La drunkoressia viene considerata una variante dell'anoressia, ben nota a tutti, ma con una variante di fondo: assumere alcolici, a differenza dell'anoressia, significa assumere calorie, quindi si rinuncia al cibo per poter bere maggiormente.

Vediamo le analogie con l'anoressia: rifiuto drastico del cibodiminuzione di pesouguali criteri diagnostici. Per quanto riguarda quest'ultimi è necessario rilevare se l'Indice di Massa Corporea (IMC) è calato sotto 17,5 e se è presente amenorrea. L'IMC si ottiene dividendo il peso in chili per il quadrato dell'altezza in metri. L'indice normale nelle donne è tra 19 e 24,5. La volontà di dimagrire non è fine a sé stessa come nell'anoressia ma è strumentale all'assunzione di alcol. Le ragazze possono non riuscire ad assumere alcolici quando hanno cibo nello stomaco, quindi digiunare è necessario per poter bere. Inoltre nell'anoressia per continuare a dimagrire è necessario mettere in atto altri comportamenti, dopo aver assunto piccole quantità di cibo, quali: autoinduzione del vomito, uso di lassativi, logorante attività fisica. Al contrario l'assunzione di alcol, grazie alla relativo introito di zuccheri, procura un senso di sazietà che permette di non avvertire la fame. Ma questa differenza è solo una motivazione iniziale. Successivamente la motivazione “drunkoressica” diventa motivazione “anoressica” in quanto dimagrire diventa lo scopo principale e ci si esalta dalla consapevolezza di poter vincere la fame.

I rischi della drunkoressia sono gli stessi dell'anoressia: osteoporosi, alterazioni cardiache, amenorrea. A quest'ultimi si aggiungono quelli derivante dal consumo di alcolici, specie se a digiuno: neuropatie, tremori, danni al fegato ed al cervello col tempo. Questa sintomatologia e acuita nel sesso femminile perché tende ad espellere l'alcol più lentamente del sesso maschile. In entrambi i sessi sono presenti tutte le conseguenze dell'assunzione di alcol in età adolescenziale quando lo sviluppo psicofisico è particolarmente vulnerabile. Nel momento in cui la drunkoressia raggiunge livelli d'allarme è necessario intervenire come con l'anoressia: terapia di riunitrizione, psicoterapie individuali e di gruppo, eventuali assunzioni di farmaci quando l'alcol è diventata una vera e propria dipendenza. Per attuare tutto ciò potrebbe rendersi necessario rivolgersi ad un centro per i disturbi del comportamento alimentare. Importante è la prevenzione: educare gli adolescenti alle conseguenze di un uso smodato di alcolici; combattere la cultura dello “sballo”, vale a dire divertimento possibile solo se associato a comportamenti trasgressivi.


made in Modna - l'aceto balsamico tradizionale

STORICITA’ DEI BALSAMICI
Le zone di produzione dell'aceto balsamico tradizionale di Modena erano e sono tuttora situate nelle province di Modena e Reggio Emilia, ad esclusione dei territori montani ed appenninici, dato che il microclima dei luoghi oltre i 300 metri di altezza non presenta le caratteristiche necessarie alla produzione di questo prodotto. Sono le zone dove per diversi secoli governarono i signori della Casa d'Este.

Si ipotizza una nascita casuale del balsamico; probabilmente un certo quantitativo di mosto cotto d'uva, la cosiddetta saba, il dolcificante utilizzato nella cucina modenese, fu dimenticato in un vaso casalingo e ritrovato solo dopo un po' di tempo quando già presentava segni di una avviata acetificazione.

E' di un certo Donizone, monaco benedettino vissuto fra l'undicesimo ed il dodicesimo secolo, la prima testimonianza scritta sul balsamico. Nella sua cronaca "Vita Mathildis", racconta come , in occasione di una sosta a Piacenza nell'anno 1046, il re e futuro imperatore Enrico III di Franconia, mandasse un suo messaggero al marchese Bonifacio di Canossa, padre di Matilde, (cito) "poiché voleva di quell'aceto che gli era stato lodato e che si faceva nella rocca di Canossa”. In questo racconto non è menzionata la parola "balsamico", ma abbiamo comunque la testimonianza di quanto già allora quell'aceto fosse considerato importante al punto di farne dono ad un imperatore che, pur venendo da così lontano, ne conosceva l'esistenza.

Il cronista ottocentesco modenese Antonio Vallisnieri riferisce come alla Corte estense venissero conservate botti di aceto già intorno al 1228, ai tempi di Obizzo II, signore di Ferrara, Modena e Reggio Emilia.

Un volume della Corte ducale del 1556 intitolato "La Grassa," riporta una scrupolosa classificazione dei tipi di aceto in base alle differenti possibilità di impiego. Da ciò deduciamo che alla corte estense si avevano le idee già molto chiare sulle diverse qualità di balsamico e che si destinasse solo quello migliore a persone di rango e per certe occasioni importanti.

Nel 1598 Modena diventò capitale del Ducato e a questo periodo risalgono documenti che attestano ancora più esplicitamente l'interessamento della Corte ducale al prodotto.

E' del 1597 una lettera del procuratore di corte Giovanni Francesco Vezzali diretta al fattore generale di corte signor Ercole Estense riguardante l'acquisto di mosti di trebbiano per le acetaie ducali. L'anno successivo il governatore ducale Giovanni Battista Contugo, in una lettera indirizzata alla Camera ducale avverte di aver trovato le uve idonee ad accomodare le acetaie. Il fatto che il duca fosse così attratto dal balsamico significa che, evidentemente, avesse modo di assaggiarne di maturo, quindi botti di aceto dovevano esistere a corte già da lungo tempo.

In base alle testimonianze scritte, troviamo citato per la prima volta il termine "balsamico" soltanto in un registro della cantina ducale del 1747; in questo si ordina il trasloco dell'aceto da una cantina segreta alla camera del prato, luogo storico per il balsamico, situata nel torrione ad ovest della facciata del palazzo ducale.

E' una consuetudine quella di fare dell'aceto balsamico dono prezioso alle persone di riguardo. Documenti e materiale epistolare ce lo confermano.

Dicevamo che il termine "balsamico" appare per la prima volta solo nel 1747, e tale termine deriva dalle proprietà medicinali inizialmente attribuite a questo particolare aceto. Vari documenti e la tradizione confermano questo aspetto dicotomico, cioè l'impiego dell'aceto balsamico, in campo medicinale prima e gastronomico poi.

Nel 1508, Lucrezia Borgia, dando alla luce in Ferrara il figlio Ercole II, ne sperimentò le proprietà terapeutiche proprio al momento del parto.

Durante la pestilenza del 1630, l'aceto servì come (cito) "preservativo al contagio" e contro "l'ammorbamento dell'aria"( preservarsi con abluzioni, con gargarismi, utilizzandolo come cordiale, come tonico, contro l'aria infetta lasciandone cadere alcune gocce sulle braci del camino). E diverse sono le prove che testimoniano l'uso del balsamico come rimedio alla
peste. Una per tutte, una lettera di certo signore Mongardino al conte Molza datata 4 settembre 1630, dove vengono dati appunto consigli e direttive sull'uso del balsamico.

Una conferma sulle proprietà curative nelle infiammazioni delle mucose ci è data da documenti riguardanti il duca di Modena Francesco IV (1779 - 1846) che viaggiava sempre con un cofanetto del prezioso liquido nella propria vettura, usato come conforto per sua cagionevole salute.
La tradizione popolare conferisce all'aceto balsamico ulteriori caratteristiche singolari; una sua virtù afrodisiaca. Virtù che sempre la tradizione vuole che fosse già validamente sperimentata da Isabella Gonzaga, mentre si narra più tardi che anche Giacomo Casanova ne conoscesse i magici effetti.

Col passare degli anni l'aceto balsamico rimase protagonista nella storia del Ducato di Modena, seguendolo nelle sue alterne fortune. Sempre il cronista Antonio Rovatti, in un suo manoscritto del 1796, descrive la vendita per conto della Repubblica Francese (cito) "dell'Aceto Balsamico dell'ex Duca custodito entro 36 barili di un quarto per caduna, nel terzo torrione del palazzo ex Ducale verso San Domenico", la già citata camera del prato, nella torre sul lato a ponente rivolta verso la Chiesa di San Domenico.
E' probabile che gli acquirenti, fossero tutti appartenenti ai ceti abbienti, quindi, forse, ancora oggi, può esservi rimasto del prezioso aceto anche se non è possibile identificarlo; infatti Napoleone fece cancellare dalle botti tutti gli stemmi esistenti e non abbiamo documenti che attestino i nuovi proprietari. Sappiamo per certo comunque che non tutto l'aceto del duca andò venduto in quell'occasione. Infatti il 2 settembre 1817 le grandi finestre della camera del prato vennero riaperte in concomitanza della visita del principe Metternich che ben conosceva il prezioso balsamico. Il duca infatti, durante le sue visite di lavoro a Vienna, aveva magnificato le qualità dell'aceto, ed ora il Cancelliere austriaco chiedeva di poterne assaggiare del migliore.

In quegli anni il commercio del Ducato era piuttosto trascurato, anche per la paura che il Duca aveva della intraprendenza della borghesia mercantile, per cui favoriva o la vecchia nobiltà (cioè i proprietari terrieri) o il popolo. Per questo la bilancia commerciale era in seria difficoltà, anche se si cominciava ad intravedere un qualche spiraglio di luce, per lo meno per quanto riguardava gli scambi con l'Impero Asburgico.

Sempre da Antonio Rovatti, in "Cronaca Modenese", apprendiamo che esisteva una "Lega Doganale Austro-Estense" riguardante i rapporti commerciali con il lombardo veneto; ebbene, nei rapporti commerciali con il lombardo veneto l'aceto balsamico compare in prima fila fra i prodotti esportati.

Dopo il plebiscito del 1860 i produttori modenesi non interposero molto tempo a riprendersi dai disagi che il grande cambiamento aveva prodotto e subito parteciparono ad importanti esposizioni in Italia ed all'estero.
1863 Esposizione agraria a Modena,
1872 Esposizione agricola industriale a Vignola,
1878 Esposizione internazionale a Parigi,
1888 Esposizione emiliana a Bologna,
1888 Esposizione vaticana a Roma.

Il 4 maggio 1859 si riaprirono di nuovo le finestre della Camera del Prato. Questa volta, dopo il plebiscito, giungevano a Modena il nuovo sovrano Vittorio Emanuele II e il primo ministro Camillo Benso conte di Cavour. Questa visita preludeva purtroppo alla fine delle famose acetaie del duca. Cavour ordinò infatti di trasferire le botti migliori nel castello di Moncalieri, dove, lontano dalla sua terra e dal suo clima il balsamico verrà lasciato in abbandono fino a morire.

È di questo stesso periodo la richiesta dell'enologo di Casale Monferrato Ottavio Ottavi, all'avvocato modenese Francesco Aggazzotti, esperto cultore, di chiarimenti per la conduzione di una acetaia. Aggazzotti risponderà con una lettera il cui contenuto, che descrive la procedura per la preparazione del balsamico, per i modenesi diventerà il "breviario" per la cura e la conduzione dell'acetaia.

PRODUZIONE DELL’ACETO BALSAMICO TRADIZIONALE DI MODENA
L'Aceto Balsamico Tradizionale di Modena matura nella quiete delle acetaie, attraverso la particolare tecnica dei travasi ed i molti anni di affinamento ed invecchiamento, per arrivare ad essere disponibile in due tipi, diversificati in base al periodo di invecchiamento: oltre dodici anni per il prodotto "classico" ed oltre i venticinque per quello "extra vecchio". La materia prima per ottenere l'Aceto Balsamico Tradizionale di Modena, seguendo il disciplinare di produzione, è ottenuta dalle uve prodotte dai vitigni che tradizionalmente vengono coltivati nella provincia di Modena, principalmente uve Trebbiano e Lambrusche ma anche vitigni meno noti.

L'articolo 4 del decreto ministeriale del 5 aprile 1983 avverte che le condizioni ambientali e di coltura dei vigneti, destinati alla produzione del mosto, devono essere quelle tradizionali della zona, e, comunque atte a conferire alle uve ed al mosto derivato, le specifiche caratteristiche. Le zone migliori sono quelle situate nella fascia ai piedi delle colline dell'Appennino modenese.

Tutto ciò che gli antichi avevano intuito attraverso l'esperienza è stato provato da studi successivi; cioè che la maturazione tardiva rende l'uva di Trebbiano adatta alla produzione di mosto per l'Aceto Balsamico Tradizionale di Modena a causa della sua alta concentrazione zuccherina e che le caratteristiche del terreno in cui prospera, (leggermente calcareo e ricco di macro e micro elementi), il clima in cui nasce, (di transizione fra quello mediterraneo e quello continentale) influenzano la composizione del mosto e l'attività dei microrganismi che agiscono sulla trasformazione acetica.

Le analisi effettuate dimostrano che il mosto di Trebbiano è particolarmente ricettivo all'insediamento di lieviti ed acetobatteri, ideale quindi alla produzione di aceti pregiati.

La procedura necessaria per ottenere l'Aceto Balsamico Tradizionale di Modena passa attraverso quattro fasi fondamentali: la raccolta dell'uva, la pigiatura, la cottura del mosto e l'invecchiamento. La raccolta dell'uva è effettuata in autunno quando il rapporto fra zucchero ed acidità totale è più elevato. La scelta dei grappoli si effettua in vigneti posti in zone salubri. La raccolta viene effettuata quasi sempre a mano, con ceste di vimini o cassette di legno, per garantire la perfetta integrità del grappolo prima della pigiatura. Uva adatta è anche il risultato di una adeguata potatura del vitigno nell'inverno antecedente la raccolta.

La pigiatura dell'uva, meccanica o manuale, deve comunque essere soffice. Gli antichi produttori, nella pigiatura a piedi nudi, solevano reggersi su due aste appoggiate sul terreno fuori dal tino per risultare più leggeri, oppure facevano eseguire la stessa operazione a bambini. Questo per ottenere un basso tenore di polifenoli, (cioè tannini, pigmenti coloranti eccetera, contenuti nelle parti solide del grappolo come le bucce, i vinaccioli, i raspi), che rallentano il processo di acetificazione. Il mosto deve poi essere filtrato e decantato, viene cioè separato da sostanze solide e da impurità, poi si deve procedere ad una defecazione con chiarificazioni e schiumature. In passato il filtraggio si otteneva attraverso sacchi di fibra naturale che trattenevano le impurità, oggi si impiegano anche altri materiali. Un buon mosto si ottiene dall'uso di uva ben matura, con un giusto rapporto fra valore zuccherino e acidità. Normalmente gli zuccheri sono controllati tramite il mostimetro di Babo, un densimetro graduato che permette di leggere direttamente la quantità di zuccheri nel mosto.
1 grado Babo corrisponde all'1 % di glucosio. Nelle zone della provincia di Modena il grado Babo del mosto d'uva Trebbiano si aggira normalmente sui 18 gradi.

La cottura del mosto deve avvenire quasi contemporaneamente alla pigiatura o al massimo nelle ventiquattro ore successive, al fine di evitare che inizi la fermentazione alcolica. Il mosto viene messo a freddo in un paiolo di rame o di acciaio inossidabile e viene cotto per diverse ore a fuoco diretto senza coperchi, fino a raggiungere una concentrazione variante fra il 30 ed il 70 %,(con mosto cotto ricco di zuccheri, da uva di buona annata in zona collinare è ottimale una riduzione del liquido del 50%). Normalmente la concentrazione ottimale è tale quando si riscontri una gradazione di circa 28/33 gradi Babo. Dopo avere fatto bollire il mosto per circa mezz'ora, la temperatura deve rimanere all'incirca di 80/90 gradi centigradi. Le alte temperature di bollitura per lungo tempo sono sconsigliate onde evitare la caramellizzazione degli zuccheri che, concentrandosi, potrebbero dare quel tipico sapore di bruciato. Con un colino o mestolo bucato è buona cosa schiumare le fecce che si formano in superficie. I flavandioli o leucoantociani , cioè pigmenti contenuti nel mosto, durante la bollitura in ambiente acido si trasformano in parte in antociani ,determinando la conseguente colorazione scura del liquido. Il contenuto zuccherino del mosto procura un alimento ricco ai zycosaccharomyceti che, a loro volta, produrranno un abbondante nutrimento agli acetobatteri, responsabili della trasformazione acetica. Il mosto cotto, dopo essere stato raffreddato in mastelli di legno o di acciaio inox, viene stivato in damigiane di vetro per diversi mesi, al fine di decantare fecce e mucillagini.

La fase dell'invecchiamento è forse la più delicata e personale, bisogna seguire scrupolosamente certe regole il più delle volte tramandate solo oralmente di generazione in generazione. Luogo ideale per l'acetaia è il sottotetto delle abitazioni essendo ventilato ed esposto alle temperature estreme tipiche della zona di produzione. Il caldo torrido dell'estate favorisce la maturazione e l'evaporazione del prodotto, il freddo gelido dell'inverno rallenta l'attività dei microrganismi e permette la decantazione e la limpidezza. Tendenza comune è quella di avere una serie di botti di legni diversi con capacità decrescente, nella botte grande si ha il prodotto giovane, nella piccola quello maturo. Generalmente si utilizzano batterie di vaselli con capacità decrescente circa del 20-30% l'una dall'altra. Ad esempio una batteria di 5 botti avrà: 60-50-40-30-20 litri di capacità. Oppure: 75-60-50-40-30-24-16-10 litri. Per quanto riguarda i legni l'orientamento generale è quello di mettere botti con legni teneri all'inizio, il che favorisce i processi di evaporazione ed acetificazione, legni duri nelle botti piccole per conservare in modo duraturo il prodotto invecchiato.

Una buona acetaia é sempre costruita da una batteria di botti (chiamate in dialetto vaselli) di dimensioni decrescenti. La botte madre è di rovere, da 60 litri, qui viene immesso il mosto cotto ogni anno, e una parte dell'aceto viene travasato in una botte più piccola da circa 50 litri in legno di castagno, dalla quale a sua volta viene prelevato aceto per inserirlo in una botte di ciliegio da 40 litri, da qui in una botticella in frassino da 30 litri, e infine viene rincalzata l'ultima botticella in gelso da 20 litri. Da quest'ultima botte viene raccolta ogni anno una piccola quantità (qualche litro) di aceto pronto per l'uso.

Tra i legni utilizzati a volte compare anche il ginepro e la robinia. Il travaso e il rincalzo delle botticelle viene generalmente eseguito in inverno, quando tutte le attività microbiologiche sono rallentate.

Per avviare una acetaia occorre avere un inoculo di microrganismi (zygosaccharomyceti e acetobatteri) che in genere vengono prelevati da batterie di Aceto Balsamico Tradizionale di Modena in corso di maturazione.

Di anno in anno, in autunno si porterà a giusto livello il liquido della botte più piccola che è evaporato,col contenuto della botte precedente e così via fino ad arrivare alla prima botte, quella più grande che verrà rincalzata con l'aggiunta di mosto, cotto nell'autunno precedente.

Da questo momento il tempo gioca un ruolo importante per la qualità, le sostanze contenute nelle botti piccole evolvono lentamente affinando l'armonicità e le caratteristiche organolettiche del prodotto.

Con l'invecchiamento l'Aceto Balsamico Tradizionale di Modena in fase di maturazione assume caratteri di rotondità ed equilibrio tra sostanze fisse e volatili, aumentando la quantità di residui e di zuccheri, mantenendo un'acidità costante. Tra la fine di ottobre e la fine di marzo si è sicuri che l'attività fermentativa è ferma; questo è il periodo adatto per effettuare i travasi e i rincalzi (annuali). Travaso significa il passaggio del liquido da una botte di maggior capacità all'altra più piccola; rincalzo significa il livellamento di una botte.Le due operazioni sono strettamente collegate, tranne che nella botte più grande dove si effettuerà solo il rincalzo con il mosto cotto.

E' importante controllare lo stato di salute delle botti. Grazie al foro rettangolare posto al di sopra dei vaselli, il cocchiume, si effettua l'esame olfattivo per sentire eventuali anomalie, quindi il controllo visivo della superficie del liquido e della botte per scoprire l'eventuale presenza di madri galleggianti , muffe o altri difetti, dovuti allo sviluppo di microrganismi aerobi. Ultimo esame è quello gustativo, che si effettua in tutte le botti. Sull'apertura delle botti, per motivi igienici è buona norma mettere una garza a trama fitta ben pulita. Nelle vecchie acetaie, al posto della garza, è ancora possibile vedere sul cocchiume il caratteristico sasso di fiume che, oltre a chiudere e proteggere l'apertura della botte, intaccato e corrotto dalle esalazioni del prodotto in fase di maturazione, lascia cadere dei pezzetti di materiale calcareo che tamponano gli eccessi di acidità (la tradizione vuole che il sasso provenga dal fiume Panaro).

Al termine del periodo di invecchiamento, che può essere dai 12 ai 25 anni e più, l’aceto viene imbottigliato e la sua qualità viene poi valutata da esperti degustatori a sancire il conferimento della DOP.
Il prodotto, completato il rigoroso ciclo di stagionatura ed affinamento che deve avere luogo nella zona di origine delimitata, per salvaguardare la qualità ed assicurare sia la rintracciabilità che il controllo, dovrà essere confezionato secondo gli usi locali leali e costanti in contenitori di vetro cristallino da 100 ml. La “capsula bianca” contiene l’aceto invecchiato almeno 12 anni, la “capsula oro” contiene invece l’aceto extra vecchio con almeno 25 anni di invecchiamento.

Sulle confezioni devono comparire i seguenti elementi esplicativi:
Elenco degli ingredienti in ordine decrescente di importanza;
Nome dell’azienda produttrice e/o distributrice;
Numero di autorizzazione alla produzione (licenza A.P.I.);
Data di scadenza.

LEGISLAZIONE: RICONOSCIMENTO DOP E DISCIPLINARE
Per quanto riguarda la legislazione in materia di Aceto Balsamico Tradizionale di Modena possiamo dire che l'aceto facente riferimento al nome geografico "Modena", per lungo tempo, non essendo soggetto ad alcuna norma codificante di tipo legislativo, è stato prodotto in modo difforme ed anche secondo le libere interpretazioni di ciascuno in merito alla autenticità della tradizione.

Soltanto nel 1965, nel Decreto del Presidente della Repubblica 162, all'articolo 46, troviamo per la prima volta il termine "Modena", inserito evidentemente per indicare le caratteristiche di tipo merceologico che l'aceto degno di tale nome avrebbe dovuto avere.

Nel Decreto Ministeriale 3 dicembre 1965 del Ministero dell'Agricoltura e Ministero della Sanità, tali caratteristiche sono specificate assieme alle norme tecniche di produzione. A quel tempo, non essendo ancora radicata nei produttori la concezione di denominazione d'origine, non si pensò che la fissazione delle sole tecniche produttive sarebbe stata insufficiente a difendere il prodotto da imitazioni.

Si dovrà aspettare il Decreto 5 aprile 1983, nel quale il prodotto è definito non solo sotto il profilo merceologico, ma anche dal punto di vista della difesa della denominazione "Modena". E' sancito cioè il principio secondo il quale l'Aceto Balsamico Tradizionale di Modena deve essere prodotto a Modena e Reggio Emilia con materie prime provenienti dal modenese. Sono fissati i parametri tecnici di produzione.

Con la Legge 3 aprile 1986 n.93 l'Aceto Balsamico Tradizionale di Modena viene classificato nell'ambito dei condimenti. La stessa stabilisce pure che specifici decreti avrebbero regolamentato le denominazioni di origine riferite agli Aceti Balsamici Tradizionali prodotti rispettivamente a Modena e a Reggio Emilia. (Decreto del Ministero dell'Agricoltura e Foreste 9 febbraio 1987, Decreto del Ministero dell'Agricoltura e Foreste 3 marzo 1987).

Nel 2000 è stato riconosciuto come prodotto a denominazione di origine protetta DOP.

DISCIPLINARE: - Aceto balsamico tradizionale di Modena -

Denominazione: la denominazione di origine protetta - Aceto balsamico tradizionale di Modena - è riservata al prodotto che risponda alle condizioni ed ai requisiti stabiliti nel presente disciplinare di produzione.

1.Base ampelografica: L' Aceto balsamico tradizionale di Modena deve essere ottenuto da mosti di uve provenienti dai vigneti composti in tutto o in parte dai seguenti vitigni:
Lambrusco (tutte le varietà e cloni);
Ancellotta;
Trebbiano;
Sauvignon;
Sgavetta;
Berzemino;
Occhio di Gatta;
Il prodotto di cui all'art.1 può, altresì, essere ottenuto dalle uve dei vigneti iscritti alle DOC in provincia di Modena.

2.Zona di produzione: Le uve destinate alla produzione dell'Aceto Balsamico Tradizionale di Modena devono essere prodotte nel territorio tradizionale della provincia di Modena.

3.Caratteristiche della materia prima: Le uve destinate alla produzione dell'Aceto Balsamico Tradizionale di Modena devono assicurare al mosto un titolo di almeno 15 gradi saccarometrici e la produzione massima di uva per ettaro di vigneto, in coltura specializzata, non potrà superare i 160 quintali.

4.Metodo di elaborazione: I mosti freschi destinati alla produzione dell'Aceto Balsamico Tradizionale di Modena possono essere sottoposti ad un processo di decantazione e refrigerazione purché non si provochi il congelamento della parte acquosa.
E' vietata l'utilizzazione di mosti muti e/o mosti addizionati di qualsiasi additivo e sostanza. E' vietata l'aggiunta di qualsiasi sostanza non prevista nel presente disciplinare. Il prodotto che, a giudizio del detentore ha acquisito le caratteristiche minime previste dal presente disciplinare per l'immissione al consumo, è sottoposto ad esame analitico ed organolettico

5.Caratteristiche al consumo: L'Aceto balsamico tradizionale di Modena, all'atto dell'immissione al consumo deve rispondere alle seguenti caratteristiche:
colore: bruno scuro, carico e lucente;
densità: apprezzabile in una corretta, scorrevole sciropposità;
profumo: bouquet caratteristico, fragrante, complesso ma bene amalgamato, penetrante e persistente, di evidente ma gradevole e armonica acidità;
sapore: caratteristico del balsamico, così come attraverso i secoli è stato consacrato dalla tradizione in immutabile continuità, dolce e agro e ben equilibrato con apprezzabile acidità con lieve tangente di aromaticità ottenuta per l'influenza dei vari legni usati dei vaselli di acetaia, vivo, franco, pieno, velluttato, intenso e persistente, in buona sintonia con i caratteri olfattivi che gli sono propri;
acidità totale: non inferiore a 4,5 gradi ( espressa in grammi di acido acetico per 100 grammi di prodotto); densità a 20° C: non inferiore a 1,240.
L'accertamento delle caratteristiche analitiche ed organolettiche della denominazione è effettuato, su richiesta degli interessati, su tutte le partite prima dell'immissione al consumo

6.Esami analitici, sensoriali ed imbottigliamento: Il superamento dell'esame analitico e sensoriale è condizione vincolante per poter commercializzare il prodotto con la denominazione prevista all'articolo 1. L'imbottigliamento del prodotto giudicato idoneo a seguito dell'espletamento della procedura di cui al presente articolo, avviene nell'ambito del territorio amministrativo della provincia di Modena. I contenitori in cui è confezionato l'Aceto Balsamico Tradizionale di Modena debbono essere unici nella forma, in grado di assicurare la conservazione della qualità ed il prestigio del prodotto stesso e devono rispondere alle misure e caratteristiche tecniche qui di seguito elencate: forma: sferica con base rettangolare in vetro massiccio; composizione: in vetro di colore bianco cristallino; capacità: cl 10 o cl 20, o cl 40. La forma artistica del contenitore è opera del designer Giugiaro. Ad imbottigliamento effettuato, l'Aceto Balsamico Tradizionale di Modena deve essere corredato di un contrassegno non riutilizzabile, a serie numerata, apposto sul contenitore in modo tale che il contenuto non possa essere estratto senza la rottura del contrassegno stesso.

7.Designazione e presentazione: La designazione in etichetta della denominazione Aceto Balsamico Tradizionale di Modena deve essere fatta in caratteri chiari, indelebili e della stessa dimensione e colorimetria e sufficientemente grandi da essere distinti da ogni altra indicazione che compare in etichetta. La designazione della denominazione di cui all'art. 1 deve essere immediatamente seguita dalla dizione "denominazione di origine protetta" scritta per esteso ed in caratteri di dimensione non inferiore a 3/4 di quelli utilizzati per la designazione della denominazione. In etichetta, potrà, altresì, comparire anche per esteso e nella lingua del Paese di destinazione la sigla comunitaria "denominazione di origine protetta" o "DOP". Alla denominazione di cui all'art. 1 è vietata l'aggiunta di qualsiasi qualificazione diversa da quella espressamente prevista nel presente disciplinare, ivi compresi gli aggettivi "extra", "fine", "scelto", "selezionato", "riserva", "superiore", "classico" o similari. La locuzione "tradizionale" può essere ripetuta in etichetta, nel medesimo campo visivo in cui è indicata la denominazione, in caratteri non superiori al triplo di quelli utilizzati per indicare la denominazione. E' vietato per l’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena indicare ogni riferimento all'annata di produzione; è consentita la citazione "extra vecchio" per il prodotto che abbia avuto un invecchiamento non inferiore ai 25 anni. Eventuali indicazioni al consumatore relative alla modalità di elaborazione ed alla collocazione gastronomica del prodotto devono figurare in una controetichetta o pendaglio o in una parte nettamente separata dall'etichetta principale e devono essere tali da non indurre il consumatore in errore su una qualità particolare, sulla metodologia di produzione o sul reale invecchiamento del prodotto. Le norme di designazione e presentazione di cui al presente articolo non sono sostitutive di quelle previste dalle vigenti norme comunitarie e nazionali in materia di etichettatura dei prodotti alimentari.
Legame geografico: E' il frutto della trasformazione lenta di un unico prodotto di partenza: il mosto ottenuto da uve provenienti da vitigni tradizionalmente coltivati nella provincia di Modena e cotto a fuoco diretto. La sua maturazione nei lunghi anni di invecchiamento (almeno 12) avviene senza l'aggiunta di sostanze diverse dal mosto cotto e senza interventi fisici o chimici di alcun tipo. Fra i prodotti alimentari più tipici e caratteristici del comprensorio modenese, l'Aceto Balsamico Tradizionale di Modena riveste grandissima importanza per le sue caratteristiche, che unite alla modesta produzione, risultano essere gli elementi che ne stabiliscono il pregio ed il prestigio in campo nazionale e internazionale. Lo stretto legame tra il prodotto e i fattori climatici e pedologici del territorio interessato trova conferma e sostegno nel divieto di tecniche di invecchiamento accelerato e/o artificiale, comprese quelle che si basano sulle variazioni indotte delle condizioni di temperatura, umidità e ventilazione delle acetaie. La circostanza che la materia prima proviene esclusivamente da vigneti ricadenti nella provincia di Modena, utilizzati per produrre V.Q.P.R.D., rende di fatto irriproducibile, al di fuori della zona dettagliatamente prevista, le caratteristiche dell'Aceto balsamico tradizionale di Modena.
Organizzazione richiedente:
nome: consorzio tra produttori di aceto balsamico tradizionale di Modena; indirizzo: sede legale c/o C.C.I.A.A. - Via Ganaceto, 134 - 41100 Modena, sede tecnica corso Cavour, 60 - 41100 Modena; tel. 059/336981 - fax 059/242566

DALLE SUGGESTIONI DEL PASSATO AI METODI DI OGGI
Fino alla metà del XIX secolo non esisteva un modo unico di produrre il balsamico. Ce n’erano tanti, forse addirittura uno per famiglia, ricavato da una ricetta, o da più varianti tenute segrete, tramandate al suo interno, di madre in figlia. Mosto crudo o cotto, aceto di vino o solo vino venivano aggiunti in misura variabile a discrezione del produttore, che si riservava di correggere il contenuto delle sue botticelle con aromi, caramello, vegetali, chiodi di garofano… Variava anche il periodo di invecchiamento, anche se gli aceti tenuti a maturare lungo sono sempre stati considerati i più pregiati. Da quella molteplicità sono derivati i tre prodotti di oggi.

ACETO BALSAMICO TRADIZIONALE DI MODENA:
il metodo di produzione descritto da Francesco Agazzotti nella seconda metà dell’Ottocento è tutt’oggi il riferimento che regola la produzione dell’aceto balsamico tradizionale di Modena, composto esclusivamente di mosto cotto, invecchiato in vaselli di legno per un periodo mai inferiore ai 12 anni, controllato periodicamente, mantenuto a livelli costanti dentro le botticelle mediante travasi e rincalzi della parte evaporata, via via col mosto cotto più giovane. Il prodotto che ne deriva è un condimento pregiato, dal valore e dal costo elevati, immesso sul mercato in quantità limitate e per un consumo di alto, altissimo livello.
Come già detto, il processo di creazione del tradizionale di Modena è regolato dal disciplinare di produzione della Denominazione di Origine Protetta del 15 maggio 2000 e preceduto da atti normativi nazionali del 1983, 1986 e 1987.

ACETO BALSAMICO TRADIZIONALE DI REGGIO EMILIA
L’aceto balsamico tradizionale di Reggio Emilia si ottiene tramite fermentazione alcolica e biossidazione acetica di solo mosto cotto, con un metodo in tutto simile a quello seguito per produrre il “gemello” modenese, ma utilizzando esclusivamente uve provenienti da vigneti della provincia. Anche la lavorazione, l’affinamento e l’invecchiamento devono avvenire soltanto all’interno dello stesso ambito territoriale. Dopo la vendemmia, dai grappoli si ottiene, per pigiatura, il mosto fresco, destinato alla cottura in caldaie. Il procedimento porta una sensibile riduzione del liquido ed una progressiva concentrazione, fino a 28-36° zuccherini. Il mosto così ottenuto viene raffreddato e lasciato decantare in damigiane per tutto l’inverno. Nella successiva primavera inizia la fermentazione alcolica e poi l’ossidazione acetica, all’interno di vaselli di legno, che nel reggiano venivano realizzati con una forma più allungata rispetto a quelli modenesi.
La produzione complessiva della provincia di Reggio Emilia è quantitativamente più risotto rispetto a quella modenese, ma qualitativamente eccellente e profondamente radicata nella cultura e ne patrimonio di civiltà della zona.
Il prodotto finito viene analizzato dai membri di controllo della DOP ed imbottigliato in bottiglie da 100 ml, a forma di tulipano capovolto. Sulle bottiglie, viene apposto il marchio del Consorzio di tutela unitamente a uno dei tre diversi bollini introdotti per distinguere le caratteristiche ed i tempi di invecchiamento del prodotto: “aragosta” (il più giovane, ancora ricco di acidità e di profumi più decisi), “argento” (prodotto di medio invecchiamento di cui si apprezza di più il profumo e la dolcezza) e infine “oro” (ancora più aromatico e ricco di sensazioni che solo il trascorre re del tempo può conferire.

ACETO BALSAMICO DI MODENA
È l’erede commerciale delle preparazioni più diffuse nella civiltà contadina, che univano sàba (mosto cotto) e aceto di vino, in proporzioni variabili, e che poi venivano lasciate ad invecchiare ed affinare in tini e botti di legno.
Oggi, come allora, ne deriva un prodotto gradevole, di acidità limitata e di costo contenuto, ma anche estremamente variabile nelle caratteristiche.
Poiché è meno scuro del condimento tradizionale ottenuto in botti, per effetto dell’aggiunta di aceto di vino, si è instaurata la pratica di aggiungere caramello in modo da renderlo più vicino ai canoni di gradevolezza della zona. Dal marzo 1933 il Ministero dell’Agricoltura ha autorizzato l’uso del caramello come colorante naturale.
L’aceto balsamico di Modena è in attesa di essere riconosciuto come prodotto ad Indicazione Geografica Protetta (IGP), così nel 2004 è stato emanato un decreto ministeriale che stabilisce le norme di produzione. L’aceto balsamico di Modena è il prodotto ottenuto da mosti d’uva, eventualmente sottoposti a parziale fermentazione o concentrati anche a fuoco diretto, con l’aggiunta di un’aliquota di aceto vecchio di almeno 10 anni e con l’aggiunta di aceto di vino. La percentuale di mosto d’uva cotto e/o concentrato non deve mai essere inferiore al 20%. Il regolamento precisa poi che le operazioni di elaborazione e di invecchiamento devono avvenire nelle province di Modena e di Reggio Emilia. Piccole aggiunte di caramello, fino ad un massimo del 2% del volume del prodotto finito, sono consentite per definire il colore del prodotto. È vietata, invece, l’aggiunta di altre sostanze. L’elaborazione deve avvenire in recipienti di legno per un periodo minimo di due mesi. La denominazione invecchiato è riservata al prodotto lasciato affinare in botti per oltre 3 anni. Le modalità previste per la confezione sono: la bottiglia di capacità minima è di 250 ml, ma è consentito l’utilizzo di altri contenitori per la vendita ai canali professionali e alla ristorazione.

I tre prodotti sono diversi per aromi finali, invecchiamento, prezzo, confezioni ed etichette, ambizioni di mercato: i due tradizionali sono alimenti di pregio e di nicchia, destinati a raffinati intenditori, mentre l’aceto balsamico di modena è adatto ad un consumo largo, più dinamico. Tutti però sono figli della stessa tradizione contadina, dell’amore per il vivere bene e, soprattutto, dello stesso attaccamento alle terre del cuore della pianura padana, che con il loro prodotti hanno contribuito a creare il benessere diffuso di oggi.

PREZZI E QUALITA’ A CONFRONTO
Il tradizionale è così definito perché ha una lunga storia, con procedure delicate e complesse, di botte in botte, che comunicano sfumature di sapori e profumi diversi. Le batterie storiche da cui viene prelevato sono poche migliaia in tutto; la loro produzione è destinata a tavole raffinate, a collezionisti, ad appassionati, alla realizzazione di ricette particolari. Il prezzo, compreso, indicativamente, tra i 600 e i 2000 euro al litro, ne fa un condimento del tutto esclusivo. Per quanto riguarda l’aceto balsamico non tradizionale, invece, la produzione complessiva supera i 50 milioni di litri l’anno, dei quali il 75% viene esportato, a prezzi relativamente contenuti: tra i 5 e i 50 euro al litro.

La commercializzazione del balsamico legata alla diffusione della gastronomia e della ristorazione made in italy, ha raggiunto ormai una dimensione internazionale, riscuotendo successi di diffusione in Giappone, Australia, Stati Uniti, oltre che in tutta l’Europa.

I traguardi raggiunti sul mercato sono dovuti anche agli sforzi compiuti in questi anni per migliorare il prodotto e per consentire ai consumatori di identificarne più facilmente le caratteristiche, la qualità ed i tempi di invecchiamento. Va in questa direzione l’attività dell’AIB, assaggiatori italiani balsamico, un’associazione che lavora all’analisi organolettica, all’affinamento dei gusti e degli aromi e alla definizione di parametri di qualità che consentano di distinguere le diverse le diverse categorie qualitative, nell’ampio ventaglio degli aceti balsamici di Modena proposti al consumatore.

EVOLUZIONE DEI CONSUMI E COMPETIZIONE NEI MERCATI DI RIFERIMENTO Necessario e fondamentale per poter comprendere le notizie date è sottolineare che i mercati dell’aceto balsamico di Modena e quelli dell’aceto balsamico tradizionale di Modena sono molto diversi in termini di quantità, qualità, target, ecc…

I consumi di aceto sono stabili dal punto di vista delle quantità annue. Nonostante il mercato sia maturo, attraversa in questo momento un periodo brillante dal punto di vista della crescita dei consumi in valore. Merito soprattutto dell'accelerazione delle vendite di aceto balsamico (consumo procapite: 1,5 litri anno), che da prodotto semisconosciuto sta guadagnando notorietà e vendite sempre maggiori, anche sui mercati internazionali; conseguenza di questa grande crescita portata dalla commercializzazione di massa è quindi la messa in luce del parente più nobile di questo prodotto: il balsamico tradizionale.

Il successo di entrambi è dovuto a diversi fattori: in primo luogo, gli investimenti pubblicitari di Ponti, che hanno tolto i prodotti dall'ambito super locale (le provincie di Modena e Reggio Emilia) e li hanno portati a conoscenza di larghe fasce del consumo; in secondo luogo, la generale riscoperta dei "giacimenti gastronomici" italiani, con una crescente attenzione verso quei prodotti (cui l'aceto balsamico di Modena appartiene pienamente) che fanno riferimento a una tradizione di alta qualità e genuinità alimentare.

Dall'aceto balsamico di Modena, il cui costo al litro è già in media relativamente elevato, va però distinto l'aceto balsamico di Modena tradizionale, prodotto e invecchiato secondo criteri di antica tradizione artigianale, dal costo pressoché proibitivo per il massmarket (mercato di massa).

Il mercato dell'aceto balsamico è fortemente concentrato: Ponti copre da solo nel canale iper + super ben oltre la metà dei consumi in volume. Marchi dalle non trascurabili quote di mercato, dietro Fini e Monari Federzoni.
Nel segmento dell'aceto balsamico tradizionale, oltre a Ponti, dispongono di significative quote di mercato nel libero servizio Acetum lo troviamo ai vertici di settore, con una produzione che rappresenta oltre il 20% dell'intera produzione del Consorzio Aceto Balsamico di Modena, Monari Federzoni, Modenaceti, Fini e Grosoli.

Le marche commerciali, aggressive dal punto di vista del prezzo di vendita, coprono nell'aceto classico all'interno del canale iper+super una quota in volume intorno al 19%, mentre sono ai minimi termini, ancorché in crescita, nell'aceto balsamico.
Risalgono all'inizio degli anni Settanta le prime esportazioni di Aceto Balsamico di Modena negli Usa, quando il prodotto non era nemmeno conosciuto dai consumatori del nostro Paese, fatta salva naturalmente la zona di produzione. Da quell'epoca, anche grazie agli sforzi commerciali dei produttori locali, l'aceto balsamico di Modena ha conquistato spazi di mercato via via crescenti e si è imposto alla attenzione dei consumatori di quasi tutto il mondo.

TRADIZIONE ED INNOVAZIONE
Alla base del successo commerciale dell’aceto balsamico di Modena sta la cura per la qualità del prodotto: tutta la produzione viene effettuata secondo antiche ricette, e con il controllo di un moderno laboratorio interno che ne garantisce la costanza e la sicurezza. Uno studio e una ricerca incessante sulle materie prime e sui metodi di lavorazione cerca di ottenere qualità sempre più elevate e di maggior soddisfazione che ne esaltino il profilo qualitativo, sensoriale e chimico-fisico.
Un prodotto così apprezzato corre il rischio di imitazioni poco pregevoli. Per distinguere gli aceti balsamici di qualità da quelli meno pregiati, l’Istituto per lo studio delle macromolecole del Cnr (consiglio nazionale delle ricerche), ha recentemente sperimentato la risonanza magnetica nucleare (nmr), con la quale si possono valutare alcune caratteristiche fondamentali del prodotto, tra cui, per l’aceto balsamico,l’invecchiamento.
Un elevato livello di servizio al Cliente, riconosciuto alle aziende del consorzio dell’aceto balsamico di Modena anche dalla regione Emilia Romagna con un premio nel 2002.
La maggior parte della produzione delle aziende produttrici di aceto balsamico di Modena viene esportata (77% circa) in 40 Paesi nel mondo. Da sottolineare, a questo proposito, che all'estero il Consorzio ha sviluppato stretti rapporti con alcune importanti Gruppi della Grande Distribuzione, maturando positive esperienze anche come fornitore di private labels.
Il Consorzio Aceto Balsamico di Modena, riunisce 17 tra le maggiori aziende del comparto e aderisce al prestigioso U.S. Vinegar Institute statunitense.

ISTITUZIONI A TUTELA DELL’ACETO BALSAMICO

CONSORZI

ABTM
L'ABTM rappresenta uno dei due consorzi dei produttori di Aceto Balsamico Tradizionale di Modena, (l'altro è il TABTM). Il suo ruolo storicamente è quello di regolare la correttezza e veridicità delle proprietà del balsamico tradizionale immesso al consumo. Premesso inoltre che del balsamico tradizionale è soltanto da relativamente pochi anni che se ne fa commercio, il consorzio ABTM rappresenta uno sforzo intelligente e duraturo teso a garantire il consumatore ed al tempo stesso il produttore, sul fatto che il balsamico immesso al consumo come" Tradizionale" sia realmente tale. Infatti caposaldo dell'attività del consorzio è l'accertamento da parte di una commissione d'assaggio delle caratteristiche minime riconducibili alle effettive proprietà del Balsamico. In questo modo ogni produttore associato vede il proprio balsamico imbottigliato direttamente dal consorzio in bottigliette standard, quelle disegnate da Giugiaro, a forma d'ampolla, solo dopo che lo stesso consorzio attraverso la sua commissione d'assaggio abbia accertato l'idoneità del prodotto. Il consorzio in sintesi certifica il livello dell'aceto in modo tale che solo se è dichiarato idoneo esso possa essere imbottigliato secondo le due classificazioni previste: il capsula bianca per il 12 anni minimi di maturazione e il capsula oro per l'extravecchio oltre i 25 anni minimi di maturazione. Naturalmente un balsamico centenario verrà imbottigliato dal consorzio sempre come un extravecchio cioè come capsula oro, questo perché si ritiene fondamentale in primo luogo determinarne l'ortodossia lasciando libero il produttore di riservare prezzi differenti a seconda dell'invecchiamento dopo che il consorzio ha certificato che l'aceto balsamico tradizionale preso in esame ha comunque i requisiti minimi richiesti. Il ruolo del consorzio non si limita a questa funzione d'esame organolettico ma estende il suo controllo sulle modalità di preparazione in acetaia del balsamico, marchiando i barili e prestando costantemente attenzione alla correttezza degli ingredienti e delle procedure.

TABTM
Il Consorzio Tutela Aceto Balsamico di Modena raggruppa intorno a se diversi importanti produttori di aceto balsamico tradizionale, percorrendo in piena autonomia, un proprio percorso di valorizzazione e tutela del prodotto in sinergia e condivisione con gli altri enti che proteggono le diverse tipologie di balsamico. Fin dalla sua recente costituzione si è posto come obbiettivo la garanzia della rintracciabilità dei diversi passaggi che, partendo dalle materie prime, l'uva, e attraverso la cottura dei mosti e la stagionatura, questo balsamico della tradizione necessita. In questo modo esso oltre che tutelare efficacemente la continuità della qualità del prodotto, ne certifica la sua autenticità in modo assolutamente limpido e verificabile, consentendo una tracciabilità che è la miglior garanzia per il consumatore sempre più attento ed esigente.

CPABM
Il Consorzio dei Produttori di Aceto Balsamico di Modena è stato istituito per promuovere tutelare e regolare la produzione di questo specifico Balsamico. Come più volte ricordato, l'Aceto Balsamico di Modena si differenzia sostanzialmente dal "Tradizionale" per la profonda differenza tra i sistemi di produzione, di stagionatura e di concentrazione del mosto utilizzato. La messa a punto di disciplinari specifici per la produzione di questo balsamico, non ha esaurito le istanze di tutto un ampio indotto territoriale tutelato da questo Consorzio. Un polo produttivo alimentare che cerca di darsi un'identità specifica e autonoma nel rispetto di un'esistente e consolidata storia, la quale vede già da tempo questo stesso Balsamico come sorta di ambasciatore su vasta scala del fenomeno complessivo di questa tipologia acetica. Infatti proprio il balsamico di Modena è il balsamico più conosciuto e consumato nel mondo, dal momento che i costi di realizzazione e stagionatura risultano sensibilmente più praticabili rispetto a quelli del Tradizionale. L'effetto trainate che avrà questo prodotto su tutte le tipologie dei Balsamici avrà, grazie anche a questa istituzione, una valenza assolutamente importante e per certi aspetti indispensabile.

CONSORTERIA
La Consorteria nasce a Spilamberto nel 1969 con, tra le altre finalità, quella di promuovere e di codificare in modo inequivocabile il balsamico della tradizione così come nel corso dei secoli ci è stato tramandato. La necessità nasceva dal fatto che dell'aceto balsamico tradizionale non si faceva commercio e che quindi ogni singolo conduttore di acetaia lo produceva per l'esclusivo uso personale, ricorrendo a volte a personalissime interpretazioni dei procedimenti necessari a seconda dei gusti individuali. Con la nascita della consorteria ci si pone da subito diversi obbiettivi fondamentali:
a) Codificare il procedimento originale per la produzione in purezza dell'aceto balsamico tradizionale attraverso una seria ricerca storica;
b) promuovere un sodalizio che ravvivi la tradizione attraverso l'istituzione di un palio tra i soci, il quale determini, attraverso rigorosi assaggi, un aceto balsamico sopra ogni altro, c) formare una classe di conduttori di acetaia conforme alla tradizione e alle scrupolose regole di ottenimento del prezioso liquido, d) formare gli assaggiatori che dovranno garantire la continuità della tradizione, e) promuovere in ogni occasione e in ogni sede la conoscenza e la continuità dell'aceto balsamico tradizionale di Modena. Oggi la Consorteria è una realtà in continua espansione come l'oltre migliaio di campioni presentati all'ultimo palio dimostra. La sua opera riconosciuta da enti ed associazioni pubbliche la colloca tra i più importanti e meritori sodalizi del nostro territorio estendendo la sua fama anche al di fuori dei confini locali, per arrivare ad avere eco in ogni luogo ove si coltivi l'amore per la tradizione di questo elemento unico nella cucina mondiale

L’ASSAGGIO
Premettiamo per chiarezza che l’assaggio dell’aceto balsamico di solito si effettua principalmente in acetaia.
Chi assaggia l’aceto, in qualsiasi veste, comunque è anche un po’ giudice, e deve essere preparato:
corsi per assaggiatori di balsamico, vengono regolarmente organizzati, a cura per lo più, della consorteria di Spilamberto.
Questi sono fondamentali per l’avvio di un assaggiatore in quanto solo la pratica dell’assaggio di diversi aceti, consente di avere dei termini di paragone.
Per quantificare con la dovuta precisione e la dovuta sintesi, la bontà di un aceto balsamico, è stata messa a punto dalla consorteria dell’aceto balsamico una scheda di valutazione nella quale si dà un voto espresso in numeri ad ogni particolare caratteristica dell’aceto; la somma di questi voti dà il risultato finale, a questo viene unito un giudizio complementare espresso in lettere, il massimo ottenibile ammonta a 400 punti.
Si è voluto accennare dell’assaggio, tentando di descrivere le linee guida, del metodo usato dagli esperti maestri della consorteria e del consorzio, metodo da seguire fedelmente, unitamente all’esperienza, affinando le nostre doti, migliorando la nostra capacità di analisi e di giudizio.

RICETTE

A cundir l’insaléda a gh vòl quatèr amm: un giudizios ch’el al sela, un strusiòun ch’al gh màtta l’òli, un avèr ch’al gh màtta l’asè e un mat ch’al masda.
Per condire l’isalata ci vogliono quattro persone: uno giudizioso che Sali, uno sciupone che metta l’olio, un avaro che metta l’aceto ed un matto che mescoli. Attraverso questa specie di rappresentazione teatrale si forniscono le istruzioni per il perfetto condimento dell’insalata.

INDIVIDUALITA’ DEI BALSAMICI
Prodotto completamente naturale, il balsamico tradizionale mantiene un’assoluta individualità e può presentare caratteristiche diverse a seconda delle uve utilizzate per produrre i mosti di partenza, dei legni usati per la fabbricazione delle botti in cui è stato invecchiato, dei tempi di maturazione e delle condizioni atmosferiche esterne. Può essere più aspro o più rotondo, più o meno aromatico, più denso o più fluido, più sapido o più morbido, più fruttato o più pungente… va assaggiato di volta in volta, valutato, gustato di per sé e in relazione con gli altri ingredienti che si vogliono usare nella preparazione di un piatto. La ricchezza gastronomica dei balsamici, la loro preponderanza si può paragonare a quella di altri prodotti che hanno fatto e fanno la cultura del mangiar bene: il tartufo, i fegato d’oca, il culatello, il parmigiano reggiano… veri protagonisti che non ammettono sovrapposizioni ai loro sapori, danno il meglio con altri gusti netti, con ingredienti semplici, corposi e genuini, che riescono a creare un gioco di sapori definiti, che si alternano e si contrappongono esaltandosi a vicenda.
Come spesso accade, gli esperti si dividono sull’utilizzo in cucina dell’aceto balsamico. In generale, quello di Modena va bene su ogni tipo di insalata e sulle verdure crude, e su questo sono d’accordo tutti. Ma c’è chi lo adopera sulle verdure cotte, sulle carni lessate e sulle uova, ancora calde. Più audace aggiungerne qualche goccia alla pastasciutta, al risotto e agli arrosti, ma sempre solo sul piatto pronto. Per il tradizionale, la fine ideale è sulle scaglie di parmigiano, ma si può poi versare qualche goccia sulle fragole, sul gelato di crema, e tentare gli abbinamenti secondo il gusto personale, provandoli sulle frittate, sui vari frutti e sui dolci. Qualcuno li apprezza anche sui formaggi. Un modo particolare di degustare l’aceto balsamico tradizionale è a fine pasto, in piccolissime quantità (ne basta un cucchiaino come digestivo, quasi fosse un liquore).
Prima di introdurre le ricette che abbiamo scelto di presentarvi, vorremo fare una piccola nota di carattere gastronomico: un’accortezza importante, durante la preparazione di piatti caldi, consiste nell’aggiungere l’aceto balsamico, specie se usato puro, nella fase finale della preparazione, cioè quando la vivanda non è più sotto l’influenza di fonti di calore, in modo che questa trasmetta al meglio i suoi sapori e profumi tipici e non venga snervata eccessivamente dalle trasformazioni chimiche che subisce col riscaldamento.

1) Sformatino di riso al balsamico
(per 4 persone)
360 gr di riso a lunga tenuta di cottura,
½ lt di brodo,
40 gr di parmigiano reggiano,
60 gr di burro o margarina,
400 gr di asparagi,
1 dl di panna fresca,
q.b. sale,
20 gr aceto balsamico tradizionale
Mondate gli asparagi eliminando la parte bianca e dura, tagliateli a pezzi di 1 cm e versateli in una padella in cui avrete sciolto 30 gr di burro, insaporite con sale e lasciate cuocere a fuoco lento per 25 minuti circa, unendo la panna a metà cottura.
Cuocete il riso nel brodo, incorporandovi il parmigiano grattugiato a fine cottura, disponete analogamente amalgamandoli il riso cotto e gli asparagi negli stampini di alluminio monouso dalla forma ricordante gli stampi del budino, pressare il tutto delicatamente e passare in forno moderatamente caldo per 50 minuti, a fine cottura rovesciare il contenuto degli stampi su un piatto e versatevi il balsamico sulla sommità immediatamente prima di servire.

2) Gnocchetti di zucca con aceto balsamico
(per 4 persone)
400 gr di zucca pulita,
150 gr di farina,
100 gr di burro,
150 gr di parmigiano reggiano,
2 uova,
q.b. noce moscata,
q.b. sale,
20 gr aceto balsamico tradizionale
Tagliate la zucca a pezzetti e lessatela in acqua leggermente salata, passarla al setaccio o al passaverdura e porla su di un tagliere insieme alla farina e a un pizzico di sale.
Aggiungetevi i torli delle uova, la metà del parmigiano ed un pizzico di noce moscata; lavorate gli ingredienti in modo da ottenere un impasto soffice.
Tirate la pasta e formate tanti bastoncini del diametro di circa 2 cm, tagliarli in pezzetti di circa un centimetro e schiacciarli leggermente con una forchetta.
Cuocere poi gli gnocchi in acqua bollente leggermente salata, pochi per volta estraendoli delicatamente con un mestolo forato poco dopo che saranno venuti a galla; saltarli in una padella, lontana da fonti di calore, in cui avevamo precedentemente sciolto il burro e a cui aggiungeremo il parmigiano grattugiato e una parte di aceto balsamico, impiattare e servire aggiungendo il restante aceto a gocce.

3) Frittata al balsamico
(per 4 persone)
6 uova,
2 cipolle di troppa medie,
80 gr di parmigiano reggiano grattugiato,
q.b. olio di mais,
q.b. prezzemolo,
q.b. sale,
20 gr d aceto balsamico tradizionale.
Dorate in una padella con un po’ d’olio le cipolle tagliate a fettine; in una ciotola sbattere per bene le uova, unendo il parmigiano, il prezzemolo ed il sale. Scolate bene dall’olio la cipolla e unitela alle uova sbattute mescolando il tutto; versare l’amalgama in una padella con un poco d’olio già bollente.
La cottura sarà veloce, girate la frittata per ottenere la doratura di entrambi i lati, togliere dal fuoco e servire dopo averla cosparsa di aceto balsamico.

4) Cotechino e zampetto con aceto balsamico
(per 4 persone)
1 cotechino di media grandezza non precotto,
1 zampetto di maiale,
1 gambo di sedano,
1 carota,
1 cipolla,
q.b. sale,
20 gr di aceto balsamico tradizionale
Bucare finemente il cotechino con una forchetta, avvolgerlo in una garza bagnata, legandolo alle estremità e lasciandolo a bagno qualche ora prima di iniziare la cottura in una pentola ad ebollizione lentissima per circa 2 ore.
Bollire a parte lo zampetto di maiale in una diversa pentola con le verdure e q.b. di sale, per circa tre ore.
Servire poi il tutto ben caldo, dopo aver tagliato a fette il cotechino e diviso lo zampetto bagnando il tutto con l’aceto balsamico.

5) Parmigiano reggiano e aceto balsamico
procurarsi del buon parmigiano reggiano, stagionato 36 mesi, farne delle scaglie di forma irregolare con un coltello da forma (goccia),
impregnarlo generosamente di aceto balsamico del primo barile stravecchio di oltre 25 anni.
Si dice che questo sia il miglior sodalizio dato con altri sapori dall’aceto balsamico.

6) Fragole al balsamico
mondare e lavare le fragole, si prestano bene sia le fragoline di bosco che le fragole comuni, se usiamo queste ultime sarebbe preferibile tagliarle a spicchi, zuccherare a piacere ed unire il balsamico denso tolto dal barile, mescolare scuotendo un recipiente chiuso. Servire nella tazzina eventualmente guarnendo con panna montata.

7) Gelato al balsamico
Servire il gelato alla crema, preferibilmente artigianale, in coppa di vetro, irrorando la sommità con il balsamico stravecchio oltre 25 anni.