martedì 22 giugno 2010

arte e cucina

Come già detto, sia nella presentazione che in un precedente post, i miei studi e il mio lavoro trattano la cucina.

Il cuoco è un lavoro bellissimo ma al tempo stesso tra i più duri ed usuranti per via degli orari, dei giorni e dell'impegno richiesto. Inoltre non tutte le cuicine sono stellate, templi dell'innovazione e della ricerca culinaria, anzi, nel 99% dei casi la cucina è un ambiente piccolo con solo luci artificiali, saturo di aria unta e viziata e pieno di utensili ormai vecchi ed obsoleti. Questi fattori, dal punto di vista del lavoratore fondamentali per un buon tenore lavorativo, concorrono in maniera determinante a rendere una professione dura e poco appagante.

Di contro invece nelle cucine dei migliori ristoranti i problemi che sorgono per i lavoratori sono di altro genere; lo sapevate per esempio che quasi tutti gli esercizi che hanno alti o altissimi livelli di cucina lavorano con una "partita" -in cucina l'equipè è definita partita- di 3/4 chef fondamentali assunti a tempo indeterminato e con un numero uguale, spesso maggiore, di comis -in francese garzone- che sono ufficialmente in stage. Stage, per questo genere di aziende molto note e con ottima fama nel panorama HoReCa -hotel, restaurant & cafè-, significa periodo di lavoro all'interno dell'ambiente di cucina in cui il tirocinante, giovane ed inesperto, va per imparare il mestiere e carpire lo stile proprio di quel determinato ristorante e di quel determinato chef. Da un punto di vista più disilluso -o semplicemente con dieci anni d'esperienza lavorativa alle spalle- stage significa periodo di praticantato in cui il ristorante di alta classe ha un'ulteriore persona che aiuta in cucina, forze fresche a cui solitamente vengono assegnati i lavori basilari -spesso coincidono con i più ingrati- e che paga l'azienda per questo [...].

Nonostante quanto detto, comunque, il cuoco è un lavoro bellissimo, pieno di soddisfazioni.

Cuochi ci si nasce. Le caratteristiche peculiari che devono essere innate nella persona che vuole praticare questa professione devono essere il "senso del gusto" -più avanti publicherò un post specifico su questo argomento perchè tema fondamentale in un discorso più ampio sulla cucina- e l'estro creativo. Il gap che separa una persona che possiede tali caratteristiche da un cuoco è rappresentato semplicemente la voglia di fare e la fortuna di imboccare la strada giusta per farlo.
Riuscire a cucinare buoni piatti della cucina classica, così come partorire una nuova ricetta con un matrimonio di gusti incantevole è molto semplice quando si ha consapevolezza delle buone basi -intese come tecniche di cucina e conscienza degli ingredienti- e le si miscela con la perizia di un alchimista.

Oggi questo mestiere va anche molto di moda... una persona che da anni lavora in questo settore, poco tempo fa, parlando mi disse: "Sei fortunato! Adesso per rimorchiare le veline non bisogna più essere un calciatore, ma un cuoco!".
Anche se non la vedo nei medesimi termini, certo bisogna ammettere che negli ultimi anni la cucina, cioè l'alta cucina, quella che si può definire arte culinaria, ha acquisito grandissima notorietà, grazie anche a quella scatola magica che è il pane della cultura nazionale contemporanea, la tv. Dalla televisione di stato ai canali su satellite si sprecano trasmissioni, rubriche, reality e ogni genere di format televisivo a tema. Chef più o meno grandi che diventano stelle dello spettacolo. Nuovi anchorman che dal back-office diventano matatori dei programmi, perfette "bestie" da front-office. Di contro moltissime stelle dello spettacolo e della moda che invece giocano a fare gli chef o i ristoratori, aprendo esercizi in tutto lo stivale e solo in un secondo momento scoprendo che gestire questo tipo di attività non è giocare a Monopoli.

Quanto appena detto invita ad una conseguente riflessione: l'evoluzione che il cibo –come fine- e la cucina –come mezzo- hanno subito nella storia dell’uomo, fintanto che nel mondo contemporaneo si è stabilita una naturale e florida connessione tra cucina e arte, tra gastronomia e estetica, tra buono e bello.
Questo tema stimola interessi e significati molteplici e profondi, che non si limitano alla sola valutazione dal punto di vista estetico o tecnico di cucina, ma trovano chiavi di lettura economiche, storico-antropologiche, scientifiche, filosofiche, addirittura legislative.
La dicotomia cucina\arte risveglia forte interesse in quanto si incontrano due materie ontologicamente opposte.
La prima ha la finalità di soddisfare uno dei bisogni primari dell’uomo, la fame -vedasi la piramide dei bisogni di Maslow (1954)- necessità concreta per antonomasia; fin dall’antichità però si comprese la fondamentale importanza attribuitagli dall’ uomo. Indagando sul termine “gastronomia” –da gastros, ventre o stomaco, e nomos, regola o legge: la regola o legge dello stomaco- non è propriamente un’invenzione moderna. Esso figura nei Dipnosofisti di Ateneo, il grande erudito di Naucrati vissuto tra il II e il III secolo d.C. La lunga opera si ispira esplicitamente al Simposio platonico, è ricchissima, tra l’altro, di riferimenti a prodotti alimentarie a consuetudini gastronomiche del periodo greco e romano. Già in questo contesto, il termine già significante “regola del ventre” viene ad assumere, per estensione, il significato di “buona cucina”, “piacere della tavola” fino a quello di capacità o “arte” di apprezzare i buoni cibi e le buone bevande. Gastronomia racchiude quindi un motivo dietetico, la capacità di elaborare cibi e pietanze in un certo modo e quella di apprezzarli come tali. E’ poi ripreso molti secoli più avanti, nel 1801, quando compare nel titolo stesso di un piccolo poema, La gastronomie ou l’hommeides champs à table, poème didactique en quatre chants. L’autore che rilancia e rivitalizza il termine, probabilmente sulla scia della traduzione in francese dell’ opera di Ateneo, avvenuta a partire dalla fine del XVII secolo a Parigi, è un poeta “minore”, Joseph Bercohoux. L’irruzione sulla scena moderna di “gastronomie” corrisponderà, da un certo punto di vista, alla nascita di quella “cosa”- una “pratica”? una “disciplina”? una ”attività”?- che, dagli inizi dell’Ottocento, sarà chiamata appunto “gastronomia”. Questa “filosofia dell’alimentazione”, incentrata sui valori edonistici, nasce a Parigi ma non è un fenomeno esclusivamente francese: il poema di Berchoux viene tradotto in inglese, italiano, tedesco e spagnolo già dalla prima metà dell’ottocento.
L’arte invece è un artificio. Sovrastruttura volta ad assecondare l’intelletto nella sua ricerca del bello, dunque materia prettamente astratta, soggettiva e svincolata dall’essenziale.
“Attraverso l’arte noi esprimiamo la nostra concezione di ciò che la natura non è.
L’arte è una bugia che ci fa realizzare la verità.”
(P.Picasso, 1932)
Tuttavia questa opposizione di fondo va guardata oltre lo strato superficiale: infatti a causa dell’immediato legame, almeno a livello di senso comune, dell’estetica con l’immagine, l’estetica del cibo potrebbe essere intesa come qualcosa che ha a che fare esclusivamente con l’occhio: ancora piu in particolare, con l’ornamento e la decorazione, con la fruizione visiva delle pietanze. Ma nella fattispecie del campo gastronomico la nozione che invero vi è più sovente associata è quella di qualità. “Cucina di qualità” è un’espressione sintetica, paradossalmente assai complessa, nella quale rientrano, rimandandosi senza soluzione di continuità e senza che sia stabilibile a priori alcuna gerarchia, tanto le materie inerenti alla materia prima quanto quelle inerenti alla manipolazione, alla tecnica, al savoir faire, all’identità, ma soprattutto al gusto.
Per un’estetica degli oggetti e delle esperienze alimentari, l’estetica del gusto rimanda evidentemente non ad uno solo, ma ad almeno due sensi: come insegna la fisiologia, quello che si dice comunemente “gusto” richiede il lavoro congiunto dei recettori della mucosa olfattiva e di quelli delle papille gustative. Il gusto è odore + sapore: le sostanze volatili degli alimenti, responsabili degli odori, colpiscono la mucosa per via diretta se inspiriamo col naso prima di ingerire o bere un cibo o una bevanda (ad esempio un vino); per via indiretta se esse –come si fa di solito, quando non si degusta- introdotte subitamente in bocca, grazie all’ossigenazione provocata dall’aria che entra nel cavo orale, colpiscono la mucosa per via retronasale.
Il problema dell’estetico, poi, trova nel gusto un campo fertile di sviluppo, pur non riducendovisi -dato che può esservi “piacere del cibo” sia nel cucinare che nel coltivare. E’ chiaro, infatti, che il riconoscimento, la scoperta o anche la costituzione di qualità sensibili peculiari che definiscono l’oggetto alimentare porta con sé, parallelamente, la conquista di un piacere che è al tempo stesso tanto materiale, fisico, quanto colto, mediato: come aveva compreso Hume, ponendo in analogia l’ambito della degustazione del vino con quello della critica d’arte, piacere è godere di sfumature e differenze sempre più sottili e impercettibili ad un occhio, ad un palato, ad un naso, insomma ad un gusto non educato. La differenza tra un degustatore esperto ed autorevole ed un mero bevitore è data dalla formazione, dall’educazione e dall’esperienza al riconoscimento di percezioni sempre più piccole, non dalla fisiologia né dal talento innato (P.Bourdieu, 1988). Ma un’estetica del gusto non si occupa solo degli aspetti della degustazione e del piacere sensoriale cosiddetto “colto”; fedele al suo programma di presa in conto anche –se non soprattutto- degli aspetti di medietà, di ordinarietà dell’esperienza del cibo, essa considererà il gusto come nozione stratificata, come costellazione di elementi diversi. Il vino, per esempio, può essere goduto sia come dissetante che come psicotropo inebriante, ovvero in quanto espressione di sfumature aromatiche e sensoriali: il vino non si degusta soltanto, si beve. In tutti questi casi, dunque, si ha a che fare con un’estetica del gusto, che deve condurre analisi minuziose e particolareggiate caso per caso per produrre una fenomenologia dell’oggetto e della sua esperienza. Tutto ciò supponendo che un’estetica del cibo sia un’estetica delle differenze; da questo punto di vista il gusto del cibo è una grammatica percettiva della differenza goduta –o, al contrario, della differenza ripulsa. Analogamente, un’estetica del gusto dovrebbe formare la sensibilità anche nei confronti del cattivo estensivamente inteso: ad esempio sapere che quel vino è stato ottenuto con una tecnica enologica che fa largo uso di sostanze di sintesi, dovrebbe costituire un elemento di disvalore, che è ciò che accade anche quando si compiono operazioni come la degustazione.
E’ naturale allora, a questo punto, porsi delle domande: fino a che punto è possibile provare un piacere maggiore –o, se si vuole, una bellezza maggiore, un’opera d’arte- intessendo tutte le trame della complessità dei contesti, dei complessi da cui esso si sviluppa? Che rapporto vi è tra qualità e piacere? Cosa e quanto reclama a sé la fisiologia nella sua immediatezza non solo rispetto alla nutrizione, ma al piacere stesso, al piacere in sé? Si può di conseguenza affermare come un’estetica del gusto riguardi anche gli aspetti conviviali del consumo di cibo: modalità, tempi e luoghi del “mangiare insieme” che –analogamente al cuocere, al cucinare- è uno degli altri indici con cui si è indicata la distinzione tra animalità bruta ed umanità. Elementi che implementano e completano questo aspetto non sono solo il fatto che il convivio sia luogo di coesione sociale ed identitaria, ma anche luogo di socializzazione e di contrattazione al fine di concludere affari e siglare accordi, perché la grammatica del gusto pare sottostare a regole meno rigide di quelle vigenti in altri campi di natura e politica (G. Di Luca, 2006). Si pensi, inoltre, a ciò che accade quando si compiono operazioni come la degustazione –che sono dunque “rappresentazioni” nel senso delle arti- consiste in un tentativo di estrarre ed astrarre un oggetto dal suo contesto abituale. Bere centellinando, concentrandosi sull’oggetto e sulle sue qualità sensibili significa anche rarefare la dimensione materia e temporale del vino, la sua “sostanza”, e cercare di far lavorare gusto e olfatto come se fossero vista ed udito, sottraendoli alla loro costitutiva fugacità grazie ad esercizi di memoria che tendono a fotografare, a fissare la percezione gustativa stessa. Di più, la separazione sensoriale è già un’astrazione rispetto al significato e all’utilizzo dei sensi nell’esperienza quotidiana: chi si avvicina ad un cibo di solito ne coglie prima la dimensione complessiva, che coinvolge tutti i sensi sinteticamente, ed eventualmente solo dopo produce un’analisi.
“Ho gustato le pesche e le albicocche molto più di quanto le gustassi prima, da quando ho saputo che si cominciò a coltivarle in Cina agli inizi della dinastia Han; e che i cinesi presi in ostaggio dal grande re Kaniska le introdussero in India, da dove si diffusero in Persia giungendo all’impero romano nel primo secolo della nostra era. Tutto ciò mi rese questi frutti più dolci!” Bertrand Russel.
Si è parlato di politica, estetica ed etica del cibo. Ma parlare del piacere di mangiare significa andare oltre tali categorie: “Mangiare con il massimo piacere –un piacere, s’intende, che non nasce dall’ignoranza- è forse l’esempio più profondo del nostro legame col mondo” (W. Berry, 2006).
Non può, tale materia, rimanere campo di studi per una ristretta ed elitaria selezione di iniziati. Il grande Leonardo rifletteva sul fatto che l’”uomo medio” guarda senza vedere, mangia senza gustare e tocca senza percepire, ecc… Nella contemporaneità è notevolmente evidenziato il dualismo tra chi riesce a “fruire” di tali opere e chi invece mangia per la sola funzionalità del nutrirsi, forse addirittura in questo testo se ne scoprirà una conseguente radicalizzazione. Il contrasto tra gastronomia e alimentazione. La nutrizione, la sussistenza, il “cibo per fame” senza alcuna pretesa qualitativa rimanda, oggi, al dominio incontrastato dei grandi monopoli multinazionali che elaborano materie prime senza alcuna cura sotto l’alibi della necessità nutritiva; la gastronomia come campo del piacere del cibo, del “cibo come forma d’arte”, il quale rimanda a sua volta alle materie prime di qualità eccezionale per pochi e facoltosi intenditori. Questa dicotomia sposa un’economia a sua volta duale: agricolture e allevamenti intensivi, di massa, low-cost, da parte di produttori ricchi per consumatori poveri, e agricolture e allevamenti di qualità superiore, da parte di piccoli e spesso sconosciuti produttori per benestanti gourmet.

“Se la fame e la sete sono gli istinti primitivi nell’uomo – nella bestia, l’associare tali impulsi a valori estetici è un servire la causa della cultura ben più efficacemente che le noiose e oziose dissertazioni morali e filosofiche”
G. D’Annunzio, documento manoscritto conservato al Vittoriale.

bibliografia e sitorafia - http://eugeenblog.blogspot.com/2010/06/bibliografia-e-sitografia.html


Nessun commento:

Posta un commento