martedì 29 giugno 2010

storia della nascita e dell’evoluzione della pratica culinaria come disciplina - epoca romana

I romani possono essere, a ragione, considerati i primi veri gastronomi, dato che la loro civiltà attribuì grandissima importanza alla cucina, soprattutto in periodo regio ed imperiale. L’alimentazione, comunque molto semplice, si basava su farro, grano, orzo, ceci, fave, pecorino (caseum), carne ovina, miele, uova, aglio, cipolla, aceto, lenticchie, porri, cavoli e cicoria. Venivano preparate zuppe e polente (pultes) con i cereali che vi erano a disposizione. Organizzarono allevamenti di lepri, fagiani, faraone, quaglie e pavoni, e grandi piscinae, ovvero vasche dove venivano allevate, principalmente orate e murene. Un animale verso il quale era portata una notevole cura ed apprensione d’allevamento era l’oca, col cui fegato si preparavano i “pasticci”, antenati dei più famosi francesi “pates de fois gras”.
Molto amati erano il vino, il pane ed il pesce –d’acqua dolce e di mare-. Il vino era consumato anche nel rituale della divinità ad esso preposta, il Dioniso. Il sale era prezioso per la conservazione e la manifestazione di tale valore è il compenso dato ai legionari, appunto in sale –salarium.
Avevano l’abitudine di usare come piatti focacce non lievitate (mensae).

Con la conquista dei territori nel Mediterraneo e nel Medio Oriente, importarono numerosi cibi prima non presenti nella dieta: galline, faraone e struzzi dal Nord Africa; tartufi, fagiani, miele e frutta secca, dalla Grecia; prosciutti, formaggi, funghi e ostriche dalla Gallia; pesche e asparagi dalla Persia; ciliegie e meloni dal Mar Nero.
Burro, birra (cervogia) e idromele (acqua e miele fermentati) erano ritenuti alimenti da “barbari” e quindi mancanti di una propria storia e cultura alimentare.
Dopo la conquista dell’Arabia, abbiamo menzione in alcuni documenti di una bevanda preparata con semi tostati e tritati di una pianta non meglio identificata (“potio calida ex arabis fabulis tostis tritis”): con tutta probabilità si trattava di un antenato del caffè, successivamente dimenticato per molti secoli. Inoltre dall’oriente, attraverso le piste carovaniere, arrivarono a Roma le ricercatissime spezie (pepe, coriandolo, cannella, ginger, ecc…).
Praticamente sconosciuto era lo zucchero, sostituito dal miele e da uno sciroppo dolce ricavato dall’uva; molto usati erano finocchio selvatico, cumino, senape, zafferano, timo e bacche di mirto.

Il primo testo di cucina vera e propria è il “De Arte Culinaria”, attribuito a Celio Apicio e da considerarsi una vera e propria pietra miliare.
E’ interessante anche che, eruditi famosi come Marco Porcio Catone, Orazio Flacco, Virgilio e Columella abbiano lasciato appunti riguardanti conservazione e preparazione delle pietanze.
Sulla base di questa antologia si evince che nel periodo imperiale a Roma esisteva una cucina ricca e raffinata, insaporita da molte salse, ma il popolo poteva contare quasi esclusivamente su pane, formaggio, erbe, ortaggi e poco altro.
Il pensiero comune romano in campo culinario è quello secondo cui l’arte del cuoco stia nel contraffare e travestire gli alimenti per mezzo di spezie e sapori –ritenuti preziosi e rari e che quindi attribuiscono ricchezza al piatto conferendogli valore aggiunto: “Cavare un pesce da una vulva, un piccione da un pezzo di lardo, una tortora da un prosciutto ed una gallina da un culatello”, scrive Petronio Arbitro nel Satyricon.

Bibliografia e sitorafia - http://eugeenblog.blogspot.com/2010/06/bibliografia-e-sitografia.html

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